Rosh Chodesh Elul

momiglianoCome già avvenuto con successo lo scorso anno, l’UCEI desidera riproporre la giornata di Rosh Chodesh, Capo Mese, come occasione di vita ebraica condivisa tra tutte le Comunità ebraiche in Italia, grandi e piccole, attraverso l’apertura dei Battè Ha-Keneset per la Tefillà, la lettura della Torà e, in questo caso, il suono dello Shofar.
Questa giornata di Rosh Chodesh ha un ulteriore significato, in quanto si tratta del Capo mese di Elul, che dà inizio all’ultimo mese nel calendario ebraico; secondo la tradizione riportata dai Maestri, proprio nel giorno di Rosh Chodesh Elul, Mosè, chiamato dal Signore, salì nuovamente sul Monte Sinai, vi si trattenne in preghiera per quaranta giorni per conseguire il perdono per Israele, ne discese quindi con le seconde Tavole del Patto, in sostituzione di quelle da lui infrante alla vista dell’idolatria del vitello d’oro. Il giorno in cui Mosè tornò con le seconde Tavole del Patto era il dieci del mese di Tishrì, corrispondente al giorno di Kippur, per questo i Maestri sottolineano la particolare prerogativa di questi quaranta giorni, dal primo di Elul fino a Yom Kippur, nel predisporci al perdono da parte del Signore e nel favorire quel percorso complesso e impegnativo di profondo rinnovamento personale e di riavvicinamento a D.O che viene chiamato Teshuvà.
Il midrash riporta anche che la salita di Mosè sul monte Sinai all’inizio del mese di Elul fu accompagnata dal suono dello shofar nell’accampamento d’Israele, come a sollecitare il popolo a non attendere passivamente l’esito della missione di Mosè, facendosi invece partecipe, con la preghiera e il pentimento, di quell’impegno ad abbandonare le colpe trascorse senza il quale non poteva giungere il perdono divino.
In relazione a questo ricordo e con analogo significato, la preghiera del mattino di Rosh Chodesh Elul si conclude con il suono dello Shofar, consuetudine che si rinnova per tutto il mese, fino all’antivigilia di Rosh haShanah.
Secondo la tradizione sefardita per tutto il mese si recitano all’alba le speciali invocazioni di perdono – Selichot. Un’usanza diffusa in alcune comunità di minhag italiano è quella di recitare per tutto il mese di Elul un testo più breve di selichot, al termine delle preghiera pomeridiana di Minchà.
Per richiamare in modo emblematico la particolare importanza del mese di Elul, i Maestri – seguendo la traccia del grande Rabbi Izhak Luria, hanno proposto alcune modalità di lettura del nome di questo mese secondo il criterio esegetico “rashè tevot”, ovvero acronimo, in cui ciascuna lettera appare come iniziale di una parola nel corrispondente versetto biblico. In questo caso il lavoro dei Maestri ci rimanda ad alcuni versetti biblici all’interno dei quali è possibile identificare la successione delle lettere “Alef – Lamed – Vav – Lamed” che per l’appunto formano la parola Elul
Il primo passo di riferimento è un versetto del Cantico dei Cantici-Shir Ha-Shirim (6,3) in cui il nome Elul, risulta dalle iniziali delle parole
“אֲנִי לְדוֹדִי וְדוֹדִי לִי”
“Ani le-Dodì ve-Dodì li – Io sono per il mio Amato e il mio Amato è per me” (Cantico 6,3).
Questo versetto, nell’interpretazione allegorica del Cantico dei Cantici, allude all’intensità della ricerca di D.O che si manifesta in questo periodo da parte dei figli d’Israele. L’aspetto singolare del rapporto tra Israele e l’Eterno, evocato da questo passo biblico, consiste nel fatto che si richiama ad un legame di affetto e di tenerezza, un legame quindi che si sviluppa nella spontanea condivisione di sentimenti, laddove le preghiere e le riflessioni di questo periodo ci rimandano piuttosto ad altri aspetti, come la percezione del ruolo paterno di D.O – “Avinu – Nostro Padre” – che ci conforta ed incoraggia con la Sua disposizione alla compassione, e il riconoscimento della Sua sovranità, “Malchenu, Nostro Re” da cui scaturisce invece un rapporto di obbedienza e di timore reverenziale. Quando ci rivolgiamo all’Eterno come “Nostro Padre e nostro Re”, ci troviamo comunque in una condizione che non dipende dalla nostra scelta, mentre il richiamo all’Amato allude ad uno slancio di sentimenti che scaturisce liberamente da uno spontaneo, intenso e reciproco anelito. Un altro elemento particolare che ci richiama questo versetto scaturisce dal confronto con un passo analogo, dello stesso Shir HaShirim, (2,16) “Dodì li, va-anì Lo – Il mio Amato è per me ed io sono per Lui”; in questo caso pare che il primo richiamo parta dall’’Amato’, cui corrisponde la risposta della amata. Secondo l’interpretazione allegorica, questo passo si riferisce all’iniziativa con la quale il Signore si manifesta al popolo d’Israele portandolo dalla schiavitù d’Egitto alla libertà, noi riviviamo questo richiamo d’affetto che ci giunge da D.O in occasione della festa di Pesach, è in quel tempo, nel mese di Nissan, che il Signore attende da noi che si rinnovi la risposta, attende che Israele corrisponda alla sollecitazione che proviene dall’Alto. Nel mese di Elul, al contrario, il Signore desidera che siamo noi, dal nostro livello, a compiere il primo passo, che siamo noi, con il sentimento e con le azioni, a lanciare a Lui il nostro appello.
Un altro versetto biblico che viene letto come riferimento al mese di Elul è un passo tratto dalla Meghillà di Ester
אִישׁ לְרֵעֵהוּ וּמַתָּנוֹת לָאֶבְיוֹנִים
“Ish lere’ehu umattanot laevyonim – L’uno per l’altro e doni per i poveri” (Ester 9,22).
Questa citazione è parte di un passo che descrive le manifestazioni di gioia e reciproca solidarietà seguite alla salvezza dal decreto di sterminio di Haman e che divennero poi le mizvot della festa di Purim. Riferita al mese di Elul, questa frase, nel suo immediato significato, richiama il dovere sviluppare in questo periodo una maggiore sensibilità verso il prossimo e di abbondare in opere di generoso aiuto – zedakà – in favore di coloro che si trovano in difficoltà. Nel rapporto con la precedente citazione tratta dal Cantico, emerge la necessità di sviluppare il nostro impegno non soltanto in senso spirituale, verso l’Eterno, ma anche in senso etico, verso il prossimo. Cercare D.O non significa disporci ad un’ascesa solitaria che ci isoli dal mondo, ancor peggio che ci gratifichi con un preteso senso di superiorità o di particolare “purezza”; quanto più intenso è il nostro slancio di fede, tanto più forte deve essere l’impegno di azione generosa verso il prossimo. A questo proposito si può ricordare quello che spiega Rashì, proprio su un passo della Torà nel quale è espresso con particolare intensità l’appello a ricercare il più forte legame con il Signore “ Seguite l’Eterno vostro D.O, abbiatene timore, rispettate i Suoi precetti, ascoltate la Sua voce, serviteLo e attaccatevi a Lui” (Deut. 13,5).
Rashì ci illustra in questo modo il senso dell’espressione “Attaccatevi a Lui” – “Rimani attaccato alle Sue vie, opera con generosità disinteressata (ghemilut chasadim), …come ha fatto il Santo, benedetto Egli sia”. Rav Mordechay Grinberg, Direttore della Yeshiva di Yavne, sottolinea come, sul piano dei nostri rapporti con il prossimo e nella prospettiva di un nostro cambiamento in positivo, non si tratti solo di osservare con maggior scrupolo i Comandamenti, ma di impegnarci in uno sforzo teso a migliorare il nostro carattere, a correggere gli aspetti negativi del nostro comportamento, delle nostre reazioni, come ha insegnato Maimonide nelle Norme sulla Teshuvà (7,3):
“Non pensare che la teshuvà serva e sia necessaria solo per peccati commessi compiendo un’azione… si deve invece esaminare attentamente il proprio comportamento e fare teshuvà anche per peccati come l’ira, l’odio, l’invidia, il sarcasmo, la corsa alle ricchezze e al prestigio, l’ingordigia. Sono peccati ancora più pesanti di cui è più difficile liberarsi…”.
Il riferimento più esplicito al richiamo alla teshuvà nel mese di Elul è evocato da un altro passo della Torà, letto come allusivo al nome di questo mese. (Deut. 30,6)
“וּמָל ה’ אֱלֹקיךָ אֶת-לְבָבְךָ וְאֶת-לְבַב זַרְעֶךָ לְאַהֲבָה אֶת-ה’ אֱלֹקיךָ בְּכָל-לְבָבְךָ וּבְכָל-נַפְשְׁךָ לְמַעַן חַיֶּיךָ” –
“Umal HASHEM et levavechà veet levav zar’echa lehaavà et HASHEM E-lohekha..”
Il Signore tuo D.O circonciderà il tuo cuore e il cuore della tua discendenza, affinché tu ami il Signore tuo D.O, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, così che tu possa vivere.
Questo passo della Torà definisce la sollecitazione al pentimento – cui allude l’espressione “circonciderà il tuo cuore”- come un’iniziativa che proviene da D.O e si rivolge ad Israele. La prospettiva in cui si pone questo appello dell’Eterno appare diversa rispetto alla simbologia evocata dal Shir Ha-Shirim; innanzitutto lo spazio del dialogo in questo caso non è l’ambito intimo del Cantico ma una più ampia dimensione, che comprende la discendenza, l’evolversi del popolo ebraico nel corso della storia. La sollecitazione alla teshuvà che giunge dal Signore può alludere ad un suo significato ancora più profondo, che riguarda tutti gli uomini e tutto il creato e che viene richiamato nel midrash (Bershit Rabbà 1,4) dall’affermazione secondo cui “la teshuvà precede la creazione del mondo”, se così si può dire è parte stessa del progetto della creazione che si sviluppa nel corso di tutta la storia del mondo e dell’uomo. Questo concetto ha trovato particolare espressione nel pensiero di R. Avraham Izhak Ha-Cohen Kook. Nel contesto di una riflessione particolarmente elaborata sul valore della Teshuvà, Rav Kook ci ha insegnato che la Teshuvà non è solo “espressione di pentimento”, non è semplicemente una forma di riparazione con la quale cerchiamo di porre rimedio ai nostri errori ed alle nostre colpe, è invece una forza vitale che anima tutto ciò che è stato posto in essere da D.O; la teshuvà rappresenta il massimo ideale per tutto il creato che aspira a crescere in un processo continuo di perfezionamento, che è al contempo materiale, morale e spirituale, un percorso in cui l’uomo è chiamato ad essere protagonista facendosi in questo modo partecipe del progetto di D.O.
Un aspetto ancora diverso della tashuvà è richiamato da un altro passo della Torà (Esodo 21,13), anch’esso interpretato come acronimo di Elul,che si riferisce alla pena dell’esilio nelle città di rifugio per i colpevoli di omicidio involontario.
“וַאֲשֶׁר לֹא צָדָה וְהָאֱ-לֹהִים אִנָּה לְיָדוֹ וְשַׂמְתִּי לְךָ מָקוֹם אֲשֶׁר יָנוּס שָׁמָּה” –
“vaasher lo tzadà vehaE-lokim innà leyadò vesamtì lekhà makom asher yanus shamma”
“Quando non ci sia intenzione di uccidere e solo il Signore glielo avrà fatto capitare sotto mano, ti designerò un luogo ove possa rifugiarsi” .
Il riferimento alla teshuvà insito in questo passo, sembra alludere alla necessità di porre rimedio anche alle colpe involontarie, aumentando la capacità di autocontrollo delle nostre azioni e sviluppando le nostre conoscenze e il nostro coinvolgimento nello studio di Torà, la cui carenza è spesso alla radice di comportamenti ebraicamente scorretti o inadeguati, cui ci lasciamo andare, talora senza neppure rendercene conto.
Al di fuori del richiamo testuale, troviamo un’allegoria molto suggestiva riferita al mese di Elul, particolarmente sviluppata nel pensiero chassidico, che rappresenta la speciale attenzione che il Signore rivolge ad Israele in questo periodo, per dar modo a chiunque lo desideri di avvicinarsi a Lui, anche a chi non dispone di quelle condizioni, di sentimento e di comportamento, che solitamente sono necessarie per avvertire la Sua vicinanza; questa disponibilità del Signore ad accogliere ogni persona che, in qualche modo, Lo ricerchi, è simboleggiata con l’immagine del Re che va incontro al popolo, recandosi fuori del Palazzo Reale, “Ha- Melekh ba-sadè – il RE che esce nei campi, percorre ogni palmo del territorio”, per incontrare, in ogni luogo si presentino a Lui, anche le persone più semplici.
Queste diverse immagini allegoriche ci sollecitano a cogliere questo periodo che ha inizio da Rosh Chodesh Elul come occasione speciale per ricercare e rinnovare il nostro personale rapporto con l’Eterno, cogliendo diverse modalità di approccio, in un dialogo che ora parte dall’Alto ora ci sollecita nell’iniziativa, ora ci incute timore ora ci riscalda di affetto paterno e ci commuove nella Sua tenerezza.
È in questa complessità di sentimenti che deve trovare posto non tanto la ricerca di fugaci momenti di intensa emozione, quanto la difficile, faticosa esperienza di aprire a D.O il nostro cuore, di manifestare a Lui anche le nostre angosce e i nostri dubbi; in questa strada di sincero dialogo con il Signore e di concreto impegno di vita ebraica ci sia dato modo di avviare un percorso di rinnovamento interiore, sul piano personale, e di contribuire al futuro del popolo ebraico e alle responsabilità che ci competono verso il mondo intero, sul piano collettivo.

Chodesh tov

Rav Giuseppe Momigliano

(28 agosto 2019)