Machshevet Israel
Rav Lichtenstein e il liberalismo
È riconosciuto come uno dei gedolè Israel della nostra generazione e davvero il suo profilo di studioso è un’eccezionale parabola del giudaismo contemporaneo e un’ammirevole sintesi di tradizione e modernità. Parlo di rav Aharon Lichtenstein (1933-2015): nato a Parigi ma cresciuto negli States, ha studiato sotto la paterna direzione prima di Rav Jitzchaq Hutner e poi di Rav Joseph Soloveitchik (alla Yeshiva University) che gli ha dato la smichà e del quale è divenuto poi genero. Dopo aver conseguito un dottorato in letteratura inglese ad Harvard, nel 1971 ha fatto aliyà in Israele divenendo il rosh della Yeshivat Har Etzion, dove ha speso il resto della sua esistenza nello studio e nella formazione di migliaia di giovani israeliani nel solco del sionismo religioso. Uno dei suoi estimatori lo ha definito “un umanista religioso di stampo tradizionale, impegnato nella cultura ebraica ‘alta’, dedito cioè allo studio intellettuale e analitico della Torà e del meglio della cultura generale, dato che considerava quest’ultima una fondazione universale su cui costruire l’edificio particolare del giudaismo, e costruirlo molto, molto alto” (così Shlomo Fischer). Ma basta un perfetto curriculum vitae per fare di uno studioso un gadol? E perché merita un posto tra i più significativi pensatori del giudaismo odierno? Alle due domande c’è un’unica rispota. Aveva chazon: una visione ovvero una prospettiva ampia, ragionata, persuasiva sulla vita ebraica e sul mondo.
Avere chazon, a mio avviso, significa essere così ben radicati nella propria tradizione – in termini di coscienza e conoscenza – da non aver paura di uscire nel mondo, di conversare con gli altri e di ‘filtrare’ (bel termine rabbinico) il meglio da tutti gli incontri al fine di elaborare una sintesi nuova e superiore anche a riguardo del proprio ebraismo. Ammettiamolo, è di pochi. Gli studiosi normali “escono e studiano”, quelli grandi “studiano ed escono”.
Uno degli aspetti di visione innovativa di Rav Lichtenstein, che lo ha portato su posizioni diverse rispetto al suo stesso maestro e father-in-law, è il rifiuto del liberalismo inteso come primato dell’individuo sulla società, come netta separazione tra sfera religiosa e sfera politica e come teoria del contratto sociale: gli esseri umani si associano per ‘contratto sociale’ (leggi: per scelta politica) e non per legami bio-familistici, etnici, religiosi, ecc. Campioni del contrattualismo liberale sono Locke, Rousseau e Kant. Come lo stesso Fischer ha spiegato bene, questo tipo di liberalismo è stato congeniale al mondo ebraico europeo sin dall’epoca dell’haskalà, dell’illuminismo, e di Moses Mendelssohn. Solo in quanto ‘individuo’ all’ebreo era permesso partecipare alla vita culturale, sociale e politica negli stati moderni. Ma il prezzo pagato dagli ebrei a questa visione ‘neutra’ dell’individualità ebraica è stato alto: perché quando tale contratto ‘liberale’ è stato stracciato (specie in Francia, in Germania e in Italia) gli ebrei hanno perso tutto, ma soprattutto perché nei limiti del liberalismo essi perdono una parte essenziale della propria identità collettiva, della propria vocazione di ‘am Israel che unisce gli individui l’uno all’altro con un legame religioso che i liberali riducono a opzione privata e politicamente irrilevante. Ecco perché la ‘tolleranza’ rischia di essere una mera tabula rasa delle specificità e delle vocazioni diverse dei diversi soggetti storici. Venendo da un ebreo americano, formatosi in un melieu che ha portato molti tratti del pensiero liberale al parossismo, questa critica – in nome di una più autentica identità ebraica radicata nelle fonti classiche del giudaismo – è rivoluzionaria. E può essere anche letta come radicale critica al sionismo politico-liberale (e a-religioso) dei fondatori dello Stato di Israele.
D’altra parte – e qui l’altra parte è essenziale per capire anche la prima parte – la sua visione dell’identità ebraica è tutt’altro che un’ottuso nazionalismo religioso perché esige e pretende di fondarsi su un universale umano (leggi: razionalità, moralità, solidarietà e sensibilità, apprezzamento per la dimensione estetica, buon carattere e buone maniere) che confligge con ogni ragion di stato, con ogni partigianeria faziosa o fondamentalista, con ogni immoralità sociale e indegnità personale, specie se giustificate in termini religiosi. Ogni essere umano e ogni gruppo sociale, non solo gli ebrei, hanno un ruolo nell’organismo e nella storia del mondo, sebbene questo ‘organismo storico’ che chiamiamo mondo non sia ‘pre-determinato’ da scelte divine ma ‘determinato’ dalla volontà degli individui. Nella sua visione post-liberale, Rav Lichtenstein non abbandona il principio tradizionale: sono gli individui a essere ‘soggetti halakhici’ e non il popolo in quanto tale. Solo sull’individuo gravano gli obblighi halakhici, soprattutto quelli morali (che l’ebreo condivide con il non ebreo). Nessun soggetto collettivo, neppure lo Stato di Israele, può usurpare questa prerogativa che coincide con la responsabilità del singolo, persino nel suo essere parte-di-un-tutto. E se tutto ciò non è chazon…
Massimo Giuliani, Università di Trento
(5 settembre 2019)