Ricostruire il proprio posto
Avete presente quei negozi di souvenir o certe aree di vendita delle zone di ristoro autostradali (che qualcuno pretenziosamente chiama corner shop, ma come diceva un brillante docente e maestro conosciuto decenni fa il quale a sua volta citava Paolo Conte, anche il pesce veloce del baltico con tortino di mais propinato al ristorante resta sempre sotto sotto una umile polenta con baccalà). Tra le varie cianfrusaglie in vendita – alcune deliziose ed irresistibili, va detto – ci sono spesso tazze, portachiavi, matite, piccole targhe personalizzate, decorate con i nomi propri. Non manca mai Sarah (con la h) perché è (era un tempo?) di tendenza, ma quale frustrazione vedere che a parte una manciata di nomi molto comuni o di moda, la gran parte solitamente non c’è. Mai quelli dei miei figli, commentava tempo fa un’amica, che pure non aveva prole con nomi particolarmente desueti o insoliti come Amilcare o Genoveffa, e che spesso si ritrova però a dover fare lo spelling del nome del suo ultimogenito (nome ebraico, in verità).
Mi è tornato in mente di recente, visitando la mostra “Self, Made: Exploring You in a World of We” presso l’Exploratorium di San Francisco – museo che merita almeno una giornata di sosta, e per il quale la stessa definizione di museo è decisamente riduttiva, trattandosi piuttosto di una vasta gamma di possibilità esplorative in diverse scienze esatte ed umane, in cui i visitatori sono i protagonisti attivi invitati a conoscere, sperimentare, superare i propri pregiudizi: toccare un tornado, vedere il funzionamento di una camera oscura, proiettare il proprio sguardo in centinaia di specchi ed essere sotto lo sguardo di tutti, verificare se si riesce a bere da una fontanella d’acqua zampillante da un wc (pulitissimo, ma sempre di un wc si tratta).
Una delle prime cose in cui si inciampa entrando alla mostra è un espositore con le targhe con i nomi di persona, ma qui sono stati presi come campione i nomi degli studenti di una classe (statunitense, multietnica), quelli che non trovi mai davvero nel negozietto insulso e che, traslati nella realtà nostrana, potrebbero essere Edmond, Majilinda, Omar, Ryan, Adam, Yasmin, Mariam, e così via.
La gran parte degli esperimenti si incentra sull’indagare l’identità personale in relazione alla società circostante, sollecitando il visitatore ad interrogarsi e a prendere posizione su marginalizzazione dell’altro, stereotipi di genere, pregiudizi razziali, accesso ai beni, privilegio.
Assemblare diversi capi di vestiario, capigliature e tratti somatici per stabilire se l’insieme possa essere definito maschile o femminile. Osservare solo gli occhi di una persona dovendo assumerne lo stato d’animo dallo sguardo (occhi pieni di lacrime – tristezza), salvo poi scoprire che il viso nel suo insieme rappresenta emozioni opposte da quelle che il solo sguardo sembrava suggerire (occhi pieni di lacrime…di gioia).
Confrontare i mutamenti terminologici nella raccolta dei dati relativi all’etnicità nei censimenti statunitensi degli ultimi cinquant’anni. Contestualizzare una persona secondo il suo abbigliamento – la ragazza truccata in minigonna, non in una strada buia dove sicuramente la stupreranno ma ad una cerimonia religiosa, un uomo visto da dietro in tight ad una festa, anche se poi svela una capigliatura rasta e diversi percing.
Ricostruire il proprio posto in una scala gerarchica del privilegio in cui si devono caricare nella propria borsa sacchetti di peso diverso secondo una serie di parametri quali il sesso, l’età, la religione, l’orientamento sessuale, l’area geografica di nascita, lo stato di salute. Ognuno può poi decidere se aggiungere un ulteriore sacchetto con il proprio, personale fardello – disoccupazione? Problemi familiari? Depressione? E molto altro ancora.
E, chissà come, il peso che doveva portare il mio vicino di esperimento (uomo, bianco, giovane, anglosassone, in perfetta salute, cristiano ed eterosessuale), era leggerissimo.
Sara Valentina Di Palma
(5 settembre 2019)