“Per una società che difenda le donne
serve formare i nostri giovani”

Pensare, conoscere, creare e condividere. Sono le quattro fasi al centro del progetto “Not In my name. Ebrei, Cattolici e Musulmani in campo contro la violenza sulle Donne”, presentato al ministero dell’Istruzione e frutto della collaborazione tra l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, la Comunità Religiosa Islamica Italiana e l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum sotto l’egida del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri che ne ha finanziato la realizzazione. Un progetto formativo interdisciplinare che ha al centro studenti di scuole superiori di tre città italiane – Milano, Torino e Roma – con l’obiettivo di lavorare sui valori comuni e creare nei giovani la consapevolezza di doversi impegnare per primi nella difesa della parità di genere e nella tutela delle donne. “Il ruolo delle donne all’interno della società va rafforzato. Il progetto che presentiamo oggi mette insieme tre religioni – ebraica, cristiana e musulmana – come portatrici di valori. Mette insieme competenze ed esperienze culturali a favore delle giovani generazioni, educandole al rispetto. Perché questa è la parola chiave contro ogni violenza”, ha sottolineato dal palco, durante la presentazione del progetto al Miur, l’assessore a Scuola, Formazione e Giovani dell’UCEI Livia Ottolenghi (qui il servizio del Tg2 su “Not in my name”). Tanti i relatori ed esperti chiamati a dare un contributo al progetto e presenti all’iniziativa in ministero. Tra loro, rav Roberto Della Rocca, direttore dell’Area Cultura e Formazione dell’Unione, che ha ricordato il ruolo fondamentale della donna nell’ebraismo. “Al cuore della nostra proposta formativa – ha spiegato Raffaella Di Castro, coordinatrice di progetti culturali e di formazione per l’UCEI – vi è la ‘discesa in campo contro la violenza sulle donne’ da parte delle tre grandi religioni monoteiste (Ebrei, Cattolici e Musulmani): le prospettive e i valori (comuni e specifici) di cui sono portatori, che confliggono con i fenomeni di pregiudizio, discriminazione e violenza contro le donne, anche con quelli interni alle proprie comunità storiche. Un tale spirito auto-critico rende necessaria una prospettiva laica: cioè l’apertura dialettica di un confronto e di un dialogo con la società civile nel suo complesso e con aspetti interdisciplinari (storici, etici, giuridici, filosofici, psicologici, sociologici) Tutti i contenuti proposti prevedono un doppio livello: informativo-teorico e tecnico-operativo, sempre con la partecipazione attiva dei ragazzi”. Un elemento importante, la centralità dei giovani, anche per costruire un modello per il futuro su cui lavorare, ha sottolineato Betti Guetta, sociologa del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano. “Alla base della violenza contro le donne c’è il pregiudizio: l’idea di una donna come debole, fragile, che si può picchiare. Dobbiamo partire dalle esperienze di vita dei giovani, dalle relazioni sorella-fratello, amico-amica, per lavorare sulla loro consapevolezza, per capire quali sono i meccanismi che entrano in gioco”, ha spiegato Guetta, sottolineando che l’elemento delle relazioni sarà fondamentale all’interno del progetto e per “insegnare in modo proattivo” ai ragazzi a farsi carico di quanto impareranno durante “Not in my name”.
Molti i temi messi sul tavolo in questo primo appuntamento dell’iniziativa, a dimostrazione dell’importanza e attualità dell’argomento: dalle statistiche sulla violenza e sui femminicidi al ruolo della religione. “La religione viene spesso utilizzata per giustificare atti di violenza nei confronti delle donne: è importante che siano autorevoli rappresentanti delle regioni ad attestare che la violenza non ha alcun fondamento con le religioni stesse; la spiritualità deve essere vivente”, ha affermato Aisha Lazzerini, coordinatrice del Comitato scientifico del Coreis. “La religione – ha aggiunto Marta Rodriguez, dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum – non si esaurisce nella cultura. Questo mondo è disumanizzato e dobbiamo fare di più per sostenerlo”.
IMG_20190924_164824541_HDR (1)Nell’ultimo panel, moderato dalla giornalista esperta di diritti umani Luisa Betti Dakli, i dati presentati non possono che confermare la necessità di attivare proposte formative -non solo per i giovani – a tutela delle donne: con riferimento ai dati Istat, presentati dalla ricercatrice Claudia Villante, emerge che delle 123 donne uccise nel 2017, l’80,5% è stata uccisa da una persona conosciuta. In particolare, nel 43,9% dei casi dal partner attuale o dal precedente (dal partner attuale 35,8%, corrispondente a 44 donne, dal partner precedente 8,1%, pari a 10 donne). Il problema è dunque in casa, è la violenza tra le mura. “L’80 per cento delle donne uccise – ha aggiunto Dakli – aveva già denunciata, non una volta, più volte”. Serve, l’appello dell’avvocata Maddalena Del Re, un cambio nel sistema che dovrebbe tutelare le donne, un programma ad ampio raggio che formi forze ordine, magistrati, operatori sanitari perché sappiano rispondere a questo tragico problema sociale.

dr