Periscopio – Nonostante la tragedia

lucreziNel sempre più imponente filone della narrativa avente ad oggetto – in tutto o in parte – la storia ebraica, e segnatamente il periodo della guerra e delle persecuzioni razziali in Europa, il libro di Delia Morea, dal semplice, suggestivo titolo Romanzo in bianco e nero (Avagliano, Napoli, 2018), si segnala come un’opera particolare, in quanto romanzo storico costruito – con grande accuratezza e attenzione ai dettagli – su uno sfondo particolare, quale quello della storia dell’arte, e segnatamente del cinema e del teatro, forme di linguaggio di cui l’autrice è, da sempre, esperta e appassionata.
Articolato su tre diversi livelli temporali – un presente (ai giorni d’oggi) fatto di ricordi, solitudine, nostalgia; un passato prossimo (gli anni ’71-’75) in cui i protagonisti mostrano di cercarsi, rincorrersi, sfiorarsi, sforzandosi di rivelare, a se stessi e agli altri, delle verità oscure e dolorose, che paiono restare sempre opache e sfuggenti; un passato remoto (i tragici anni dal ’38 al ’43) nel quale le vite vengono spezzate e stravolte dalla tragedia, nello scenario di una Roma bella e addolorata -, il romanzo vede i personaggi muoversi come delle comparse – a volte immaginarie, a volte reali – di un unico, grande film, quello della storia cinematografica e culturale di Italia degli ultimi ottant’anni: un lungo spettacolo, intessuto di speranza, dolore, poesia, che fa da contrappunto, scenario e colonna sonora alla vita degli attori del racconto, le cui azioni paiono a volte uscire dalla carta stampata, per andarsi a spostare sul grande schermo, dove vanno a comporre una sofferta storia di speranze, illusioni, “male di vivere”.
La vita privata dei personaggi di fantasia non trova tanto – diversamente da come generalmente accade nei romanzi storici – la sua contestualizzazione spaziale e temporale nelle vicende dei protagonisti della storia e della politica italiana ed europea, ma nelle creazioni dei grandi ideatori, interpreti e critici della cultura e, soprattutto, del cinema e del teatro italiani: non vediamo nominare, così, Hitler, Mussolini, Aldo Moro ecc., ma Vittorio De Sica, Maria Mercader, Vittorio Gassmann, Stefano Satta Flores, Aldo Fabrizi, Giovanna Ralli, Ettore Scola, Angelo Maria Ripellino, Franco Cordelli e tanti altri. È l’arte, e non la politica – questo, a mio avviso, il messaggio profondo del romanzo della Morea – a costituire la ‘vera’ ossatura della nostra vita, della nostra storia, a riempire le pagine del nostro libro. Perché, anche quando la politica ci travolge, ci schiaccia, ci uccide, il nostro dolore si consuma sullo scenario di una sorta di film, che, in qualche modo, rispecchia, anticipa e trasforma la nostra sofferenza, le nostre illusioni e speranze tradite.
Per quanto riguarda, segnatamente, la storia del popolo ebraico, il romanzo ben rende – con una prosa asciutta ed essenziale – lo sgomento, la frustrazione, l’incredulità degli ebrei italiani, abbandonati, dall’Italia degli ultimi anni ’30, nelle mani dei loro carnefici: e non solo dal regime, ma anche dalla quasi totalità dei loro concittadini, che, nella stragrande maggioranza – per convinzione, viltà, opportunismo, conformismo, paura -, non mossero un dito a loro difesa. E questi sentimenti – vividamente descritti nelle parti del libro dedicate al “passato remoto”, gli anni ’38-’43 – si riflettono, come una plumbea eredità, negli anni del “passato prossimo” (’71-75). La fine del fascismo segna la fine dell’orrore, dello sterminio, ma non riconcilia, non sana delle ferite che restano, per sempre, irrimarginabili.
Non c’è nessun “happy end”, nessuna redenzione nel bel romanzo della Morea. Tutti gli anni, tutto il tempo della storia è segnato dalla solitudine, dall’incomunicabilità, dal dolore. Le pagine della nostra vita sono sempre scritte “in bianco e nero”. Resta spazio solo per la fantasia, l’immaginazione, il sogno. E il cinema, in questo senso, appare non tanto una forma di consolazione, di fuga dall’amara realtà, quanto una sofferta, necessaria ricerca di senso. “Faremo il cinema, ecco”, dice Marcello a Rachele, di fronte alla possibilità di recitare come comparse ne La porta del cielo di De Sica, girato nel 1943, a Roma “città aperta”, nei giorni bui dell’angoscia, del lutto e del dolore. “Non ti sembra la cosa più bella del mondo che, nonostante la tragedia che stiamo vivendo, noi abbiamo la possibilità di prendere parte a un film?”. Saremo sopraffatti, moriremo, ma avremo comunque lasciato una traccia in un grande racconto, scritto da altri, di cui non ci è dato di capire la trama, di cogliere il significato.

Francesco Lucrezi, storico