Adolescenza annientata
Torno sul caso “Shoah party” per alcune considerazioni che appaiono forse tardive, in un mondo mediatico dove tutto è consumato e cancellato in pochi giorni dal comparire di nuovi eventi degni di commento. Ma che di fatto tardive non sono, perché i problemi che la vicenda ha sollevato sono ancora tutti lì davanti a noi.
Perché la Shoah è al centro ed è addirittura la base del nome di quella malefica chat? Evidentemente il termine e ciò che evoca, inteso paradossalmente come occasione di svago/sfogo, erano il pugno nello stomaco che i ragazzini di questo abisso cercavano. Evidentemente l’antisemitismo più totale era l’elemento di punta dell’aggressività informatica di cui viveva questo micro-universo.
Ma, rivolgendo a noi stessi lo sguardo, cosa abbiamo fatto e cosa stiamo facendo intorno a settori centrali come storia/memoria/formazione, se ciò avviene? Tutti dobbiamo sentirci implicati se una situazione così abnorme può verificarsi. Dove è l’errore se il percorso “formativo” si rovescia nel suo esatto contrario? Perché il culmine del male affascina in modo patologico le giovanissime generazioni e come evitare che ciò avvenga senza rinunciare alla educazione che può derivare dalla consapevolezza? A produrre tutto questo sono forse gli eccessi di immagini “da film dell’orrore” provenienti dallo sterminio, attraverso le quali si accentua – nonostante la loro totale veridicità – la già diffusa incapacità di distinguere realtà da fiction o si sviluppa addirittura un’attrazione per la violenza collettiva e le sue conseguenze? Forse è così, in parte; soprattutto se, proponendole, non si riflette in anticipo sui loro possibili contro-effetti. Forse non si dà adeguato spazio, in rapporto a foto e filmati, alla testimonianza: nella misura in cui è ancora possibile, essa è insostituibile – anche se non sufficiente per capire – perché spinge a immedesimarsi e a pensare/sentire; non si ferma alle sensazioni epidermiche che un’immagine può generare. E forse si potrebbe comunque insistere, più di quanto non si faccia oggi nell’epoca della simulazione iper-tecnologica, sulla narrazione descrittiva e motivante. Probabilmente servirebbe anche un metodo più “attivante”, teso a fornire uno stimolo per ri-costruire organizzare domandare comprendere, e non semplicemente a spingere all’ascolto passivo “subendo” le vicende narrate. Ma è anche impossibile generalizzare, perché la realtà degli adolescenti è per vari motivi molto differenziata e le conseguenze spesso indirette e lontane di iniziative didattiche omogenee sono molto diverse tra loro.
Andando oltre l’ “effetto-Shoah” che più ci coinvolge in tutta questa storia, nella terribile chat sono presenti vari altri “ingredienti” scioccanti (la delinquenza comune, la criminalità organizzata, la pedopornografia), mescolati in un intruglio tossico con l’unico apparente intento di “drogarsi” psicologicamente con un crack proibito dell’immaginazione/immedesimazione. A monte, ciò che pare diffuso in alcuni settori del mondo giovanile è l’assenza di capacità di riflessione, la mancanza di abitudine a farsi anche le più semplici immediate domande circa il significato dei propri impulsi e dei propri gesti, la tendenza presto consuetudine a lasciarsi andare senza esitazioni agli stimoli ormai automatici verso ciò che fa orientamento di gruppo generando sensazioni forti. Situazione grave e angosciante, perché al di là del condivisibile orrore generato dalla gratificazione o dal divertimento provato di fronte a quell’orrore, da un lato viene brutalmente ribadita la già acquisita convinzione circa gli effetti diseducativi e disgreganti derivati dal cattivo uso dei social media, dall’altro sorge un lecito dubbio sulle capacità e le possibilità formative della scuola e della società nel suo complesso. Restiamo sgomenti nel constatare che di fronte al vuoto culturale e all’assenza di freni inibitori il nostro sistema di formazione civile è impotente.
Davanti a questo impenetrabile “Che fare?”, però, non vale arrendersi. Forse occorre giocare d’anticipo, prevenendo a livello individuale e di gruppo determinati sfoghi di violenza distruttiva, verbale o fisica che sia, nei social networks come negli stadi; agendo in alcuni casi più in ambito psicologico che non sul terreno della conoscenza storica, provando a fornire un supporto costruttivo di progettualità umana/sociale che funzioni da argine contro il rifiuto del diverso e l’imposizione dell’ego individualistico sull’altro. Parallelamente, mi pare importante lavorare al recupero – apparentemente impossibile ma di fatto credibile – degli adolescenti che hanno smarrito se stessi in quel vortice del male: forse una lenta azione rieducativa a vari livelli, un’analisi distaccata dei fatti, la ricostruzione del tessuto connettivo di un rapporto sano e saldo col mondo reale – e non virtuale – possono aiutare loro (allo stesso tempo protagonisti e vittime) e noi (educatori sconfitti) a risalire la china.
Di fronte a fatti come questo, anche le mie salde convinzioni escono non distrutte ma scalfite: la conoscenza e la formazione storica continuano a rimanere indispensabili, ma per affrontare e alla lunga sconfiggere emergenze come “Shoah party” forse dobbiamo dirci tutti: “meno storia e più psicologia”.
David Sorani