Mitzvot e compromessi
È da tempo di moda, nel definire l’identità ebraica, affermare che è d’uopo considerare l’ineluttabilità del pluralismo. È chiaramente difficile contestare la posizione. Siamo persone diverse, con tradizioni diverse e in modo diverso viviamo il nostro essere ebrei. Ho scritto ‘viviamo il nostro essere ebrei’. Talora, tuttavia, si potrebbe dubitare che lo si viva per davvero. A volte, infatti, lo si accetta alquanto passivamente, senza fare nulla per ‘viverlo’. Non sto affermando necessariamente posizioni di carattere ortodosso, e non è certo chi scrive a volerle o poterle validare. Si sta solo dubitando che si possa vivere l’ebraismo grazie al solo sentimento. Che sarà, di volta in volta, il sentimento di dolore e di strazio per la Shoah, il sentimento d’amore per Israele, il sentimento di orgoglio nel sentirsi parte di un popolo di grandi intellettuali. Chissà che ne sarebbe dell’ebraismo – e me lo sono chiesto più volte – se nella storia ebraica non avessero fatto irruzione la tragedia della Shoah o la splendida fondazione dello Stato d’Israele. Si potrebbe affermare che basti, per sentirsi ebrei, essere orgogliosi di appartenere al popolo di Einstein o di Freud? O ricordare una antica e abbandonata tradizione un tempo frequentata dai propri antenati? Forse non è la prassi certosina delle mitzvot a decretare la nostra appartenenza, ma certo non è neppure il suo totale e fiero abbandono. Non si riesce a concordare con chi si dichiara orgoglioso di allontanarsi dalla cultura ebraica e dal suo spirito. Cerco di spiegarmi meglio. Potrò anche confessare che mi è difficile rispettare lo Shabbat e le regole precise della casheruth, o attenermi alle norme della trasmissione matrilineare dell’ebraicità, e tuttavia non esiste ebraismo che possa liberarsi dallo spirito del testo che ci ha costituito in popolo. Non si dà ebraismo che possa rinunciare ai principi di mitzvot che ci indicano la strada dell’etica, del rapporto fra l’uomo e il suo prossimo, né al principio dello studio come pratica quotidiana continua. E neppure a norme che hanno per secoli definito e preservato una identità. Alla ricerca di risposte accettabili, non mi basta dirmi che sono ebreo perché mi sento tale, o perché incarno in me un grande spirito di umanità nei riguardi degli altri. Quindi, non sono ebreo solo perché amo Israele, non sono ebreo solo perché ricordo con dolore la Shoah, non sono ebreo perché sono umano. Altri amano Israele, altri condividono il sentimento di dolore per la Shoah, altri, per fortuna, coltivano sentimenti di umanità.
Temo, soprattutto, di non potermi dichiarare ebreo se, giorno dopo giorno, smentisco nei fatti, ossia con il mio disinteresse e con la mia assenza, l’appartenenza che sto dichiarando. L’appartenenza non può prescindere dalla presenza, e non può prescindere da un’azione che definisca giorno dopo giorno ebraicamente ciascuno di noi. Ma è ovvio che è proprio sulla definizione di ebreo che ci si divide e si dissente.
Rimane il problema. È difficile definirsi ebreo attraverso la negazione dei principi distintivi. Bisogna, per definirsi, riuscire ad affermare in positivo gli elementi distintivi, gli aspetti che ci differenziano e ci uniscono.
Personalmente, per uscire dagli equivoci, preferisco riconoscermi non ortodosso iscritto a una comunità ortodossa, e compromettermi con fatica con le sue regole. Un compromesso, appunto. Altri più costosi compromessi mi piace lasciarli ad altri.
Dario Calimani, Università di Venezia