“Responsabilità del giornalista,
ecco cosa dice la Tradizione ebraica”

Tre chiavi di lettura – sociologica, etico-morale e giuridica – hanno caratterizzato la giornata di studio e formazione professionale “I doveri del giornalista per una società migliore”, organizzata ieri a Roma dalla Facoltà di Comunicazione Sociale Istituzionale della Pontificia Università della Santa Croce e dall’Associazione Iscom (Ente Terzo Formatore). L’iniziativa, valida ai fini della formazione professionale continua dei giornalisti , ha visto alternarsi al tavolo giornalisti, accademici, rappresentanti di istituzioni religiose e laiche. A portare un contributo anche il segretario generale dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Uriel Perugia, intervenuto con una riflessione sul punto di vista ebraico sui doveri e sulle responsabilità del giornalismo e degli operatori dei media e più in generale, ha spiegato, “sui valori e le istanze condivise, che auspichiamo vengano trasmesse e amplificate da quel sistema così potente quali sono i mass media”. 
“Pensando al mondo del giornalismo – ha detto Perugia – mi vengono innanzitutto in mente gli ‘impulsi’ del giornalista, cosa lo spinge a fare quello che fa. Può essere rigore, voglia di migliorare il mondo attraverso la rappresentazione dei fatti del momento. O più semplicemente, la curiosità, cercare di capire cosa sta dietro. E mi viene in mente la moglie di Lot, che non riesce a trattenersi dal guardare ciò che stava accadendo e viene così trasformata in una statua di sale”. Come ricordato da Perugia ai partecipanti al corso, è nella Torah che si registra il primo caso di cattiva informazione o informazione faziosa. Se ne parla in Bamidbar (Numeri) nel momento in cui Mosè, su indicazione di D-o, manda 12 esploratori in avanscoperta verso la Terra d’Israele prima di incamminarsi con tutto il popolo. “Tornano – ha ricordato – e non si limitano a riferire ciò che hanno visto, ma terrorizzano e spaventano il popolo parlando di giganti e di un’impresa destinata a fallire. Insomma, vanno oltre la semplice informazione, cercando di influenzare la scelta del popolo”. Il tema del riferire cose tendenziose, ha proseguito, è ampiamente trattato all’interno del pensiero ebraico e ricade sotto un nome specifico: Lashon Harà, ovvero, letteralmente, la “lingua cattiva”, traducibile con maldicenza. Una colpa ritenuta gravissima. “Sebbene nel Talmud (Barà Batrà 164 b) sia scritto: ‘È difficile che passi giorno che ne siamo risparmiati’, la colpa è considerata a tal punto grave che i Maestri l’hanno paragonata all’omicidio; e c’è chi è addirittura andato oltre (Chafez Chaim), ragionando sul fatto che con l’omicidio viene posta la fine ad una vita, mentre gli effetti di chi sparla vanno oltre questa vita, ed è un po’ come se lo sparlatore tornasse ad uccidere ogni volta con il propagarsi dell’informazione cattiva”. In un altro passo di Geremia, ha continuato, la maldicenza è assimilata ad una freccia mortale, “perché colpisce da lontano e perché, a differenza della spada, una volta scagliata, non la si può più trattenere”.
Come spiegato da Perugia, concetto ebraico dello sparlare è in realtà ancora più ampio. E cioè ci si dovrebbe astenere non solo dalla calunnia, ma anche dal riferire cose vere che possano mettere in cattiva luce il prossimo. “È chiaro – la sua riflessione – che ciò esclude il gossip e tutto un certo modo di fare informazione. Ma come comportarsi di fronte ad esempio a fatti di cronaca? Una via d’uscita potrebbe essere data da un passaggio o interpretazione in cui, in deroga a quanto detto sopra, è lecito riferire a terza persona qualcosa che riguarda il prossimo, quando il riferirla è necessario per il bene del prossimo o per evitargli danno; è quindi permesso dare informazioni sull’onestà o meno di una persona ad altra persona che sia, ad esempio, in procinto di entrare in accordi commerciali con essa”.
Presupposto di una corretta informazione è una corretta conoscenza. “Gli ebrei – ha puntualizzato Perugia – non sono solo Shoah. È un momento che è nostro dovere ricordare, come ebrei e come esseri umani, affinché ciò non accada più a noi e a nessun altro popolo. Ma non possiamo farci definire da un processo industrializzato di eliminazione; altrimenti rischiamo, come il caso della moglie di Lot, di cristallizzarci se guardiamo solamente al passato. Siamo molto altro, e sì, credo ci piaccia che sia messo in evidenza il contributo in termini di pensiero culturale, sociale e scientifico della tradizione ebraica. Sarà forse per questo che con tanta passione ogni anno l’UCEI si dedica all’organizzazione della Giornata Europea della Cultura Ebraica”.
Altro paletto è su Israele. “Anche qui mille sfaccettature in termini di opinioni e interpretazioni della realtà che vediamo. Ma il tema disinformazione – ha osservato con amarezza Perugia – è purtroppo drammaticamente vivo”. Lo ha ricordato attraverso il penoso caso che anni fa vide coinvolto il giornalista Rai Riccardo Cristiano, scusatosi con l’Autorità Nazionale Palestinese per aver dato la notizia del linciaggio di due soldati israeliani. “Purtroppo un fatto grave, di cui è un caso che se ne sia venuti a conoscenza in maniera così esplicita. Quest’uomo voleva lavorare, voleva essere messo nelle condizioni di poter continuare a fare il proprio lavoro.Ma qual è appunto, il confine tra essere messi nelle condizioni di lavorare e fare veramente il lavoro del giornalista?”. 
L’intervento di Perugia si è concluso con un riferimento al pericolo rappresentato dalla fake news, molto spesso di matrice antisemita, con un richiamo al veleno della maldicenza evocato attraverso un monito di Maimonide e con un pensiero rivolto ai giornalisti che nel mondo “quotidianamente pagano il prezzo per il lavoro che amano e della verità”. 

(30 ottobre 2019)