Il mirto
Durante la lunga festa di Sukkot abbiamo regolarmente e ripetutamente impiegato il Lulav durante le varie funzioni al Beit Haknesset. Il Lulav è un fascetto di tre specie vegetali che hanno significati diversi tra loro e che i Maestri interpretano variamente.
Questa volta ci soffermeremo sul mirto. È un arbusto piuttosto grande (2-3 metri) con foglie persistenti color verde scuro e lucide che, quando sono sfregate, rilasciano un profumo gradevole.
Le bacche di mirto vengono il più delle volte consumate sotto forma di liquore (tipico della Sardegna) prodotto macerandole in alcool, che hanno preziose proprietà digestive. Sembra che la pianta abbia anche altre caratteristiche medicamentose. In particolare vengono attribuite al mirto proprietà antitumorali. Meglio accertate sono proprietà benefiche per le patologie che affliggono le vie respiratorie, attribuite soprattutto alle foglie, dalle quali i principi terapeutici vengono estratti preparandone un decotto.
In effetti si tratta di una pianta pregevole: i fiori, singoli, sono bianchi e profumati attirano le api. Le bacche, di un bel colore blu scuro, sono talvolta utilizzate come condimento. L’olio contenuto nelle foglie è utilizzato in profumeria, come essenza dell’”Acqua di Mirto o “Acqua degli angeli”. Il legno è dotato di fibra sottile ed è molto compatto conferendo durezza al legno, che può essere utilizzato per costruzioni, ma anche per lavorazioni di pregio, come l’intarsio. La corteccia e le radici sono utilizzate per la concia del cuoio
Secondo la trasposizione che sono soliti effettuare I Maestri, il Lulav rappresenta i vari tipi umani. Il mirto ha profumo, ma non dà frutti saporiti, come gli uomini che parlano molto, ma non fanno niente per trasformare le parole in azioni. Hanno studiato poco: lo studio infatti porta all’esecuzione delle Mizvot. Il mirto è citato sia nel Levitico (23:40) che da diversi profeti. Ma l’identificazione può essere oggetto di discussione. Nel Levitico è indicato come “etz avot“ che significa un albero (o cespuglio) folto ( o duro) mentre in Isaia (41:19) è indicato con il classico nome di Hadas. Le traduzioni in entrambi i casi vengono rese in italiano come mirto o mortella. La cosa sorprendente è che Nehemia (8:15) studiando e facendo studiare la Torà al ritorno dall’esilio babilonese trovò nel testo l’espressione di “albero folto” e pubblicò un bando ordinando agli Ebrei di raccogliere rami per costruire le capanne sia di “’ale etz avot” (come indicato nel Levitico), ma anche di “‘ale hadas” entrambi tradotti come mirto. I traduttori ipotizzano che si tratti (forse) di due varietà diverse di mirto. Interpretazione poco convincente: sembrerebbe più logico pensare che si tratti di due specie diverse. Ma vi è da notare un problema non evidenziato dai traduttori in italiano: il fatto che nel Levitico si parla solo di 3 specie destinate a fare il lulav, mentre Ezra ordinò di raccogliere 5 specie: rami di olivo (zait), ma anche rami di “etz shemen” (cioè albero dell’olio), identificati rispettivamente come olivo e olivastro (cioé olivo selvatico) e rami di “etz avot” che (come abbiamo visto) significa albero folto (o duro) e che nell’incertezza viene tradotto come mirto, nonché “ale’ hadas” cioè foglie di (nuovamente) mirto ed infine di palma. C’è da notare un’ulteriore differenza tra la Torà e Nehemia: mentre nella prima i rami delle tre specie (più il cedro) sono presi per rallegrarsi (usimchatem) davanti al Signore (formando il lulav), secondo Nehemia le 5 (non più 3 soltanto) specie servivano come materiale per costruire le capanne, necessarie alla mitzwà di abitarvi 8 giorni, ma non si parla del lulav né del “pri etz hadar” (frutto di bell’aspetto cioè agrume, che la tradizione identifica con il cedro). Occorre notare che Nehemia insieme a Ezra, “riscoprono” la Torà a beneficio degli Ebrei ritornati da Babilonia, che, come dice il libro di Nehemia erano soltanto 42360 persone! È difficile capire e sapere se nel corso di questa “riscoperta” della Torà (che evidentemente in Babilonia aveva avuto difficoltà ad essere studiata e conosciuta) vi sia stata qualche “discrepanza interpretativa” rispetto ai tempi precedenti l’esilio, che si sia prolungata fino ai nostri giorni. D’altra parte dobbiamo notare che la Mishnà (Moed: Sukkah) discute dettagliatamente del Lulav comprendente il “hadas” cioè il mirto e non mi risulta parli di “etz avot”. Ma occorre ricordare che la Mishnà si è sviluppata sì in Babilonia, ma in forma orale e non è detto che Ezra e Nehemia diponessero (al ritorno a Gerusalemme) di tutta la Mishnà che è stata chiusa e messa per iscritto da Yehudà Ha-Nassi poco prima del 217 E.V., cioè 5 – 6 secoli dopo.
Ritroviamo il termine “hadas”, al femminile però, cioè Hadassà, per indicare Ester. Il testo stesso della Meghillà dà la “traduzione o meglio l’indicazione che Hadassà era Ester. Ester era un nome persiano che richiama la divinità Astarte, ma ha anche il significato di stella. Rav Luzzatto nella sua traduzione della Meghillà indica la possibilità che Hadassà sia una parola accadica per indicare “sposa”. Entrambe le interpretazioni sono ragionevoli. Se fosse il nome della pianta, essendo questa profumata ed aromatica sarebbe benaugurante: pensiamo, per analogia in italiano, ai nomi femminili di Rosa o Margherita.
Comunque nel Tanah il mirto /hadas è indicato come espressione della benevolenza e della benedizione del Signore che lo farà crescere nel deserto invece dei rovi (Isaia 55,13; Zaccaria 1,8).
Roberto Jona, agronomo