Lavori su Commissione

claudio vercelliSi può discutere, e a lungo, su quali siano gli spazi di libertà di manifestazione del pensiero e dell’opinione. Ovvero, su come distinguere, in maniera comunque mai facile ed immediata, la sottile e mobile linea che divide l’uno e l’altra dall’offesa deliberata. La questione di fondo, in un tale caso, è la delegittimazione dell’umanità dell’offeso. Ossia, la sua disumanizzazione e diabolizzazione. È non meno legittimo l’interrogarsi sul senso di ciò che definiamo come «politicamente corretto», qualcosa che interviene direttamente nel linguaggio, soprattutto istituzionale, per orientarne a priori l’indirizzo (e di riflesso i contenuti). Si tratta di temi aperti, sui quali si giocano aspetti non secondari delle nostre libertà e che rimandano alla nozione, per nulla astratta, di liberalismo come calco nel quale misurare la centralità dell’individuo in un ordinamento sociale. Il rischio che si intravede all’orizzonte è quello di un paternalismo ideologico orientato ad un pesante conformismo della comunicazione, quasi che ciò potesse costituire un improprio risarcimento rispetto alle responsabilità trascorse e ai sensi di colpa che da esse derivano. Le zone di interdizione linguistica, i contesti in cui non ci si può pronunciare poiché diversamente si è a rischio di censura, non solo non giovano alle libertà ma neanche all’obiettivo altrimenti conclamato, quello di incrementare la giustizia sociale. Tuttavia, la questione di ciò che si possa (e voglia) dire in pubblico, e del come lo si faccia, ovvero di quanto impatti sugli interlocutori e sulla coscienza collettiva, rimane strategica. Poiché si lega immediatamente ai differenziali di potere di coloro che svolgono un ruolo di comunicazione. Non siamo tutti uguali, ossia non abbiamo la medesima forza e non raccogliamo lo stesso effetto nel momento in cui entriamo in un qualche agone pubblico. Così come l’inflazione di banalizzazioni e volgarità assortite, di falsificazioni e di manipolazioni, è parte integrante del formarsi di un pregiudizio e del suo consolidarsi attraverso l’anestetizzazione collettiva. È notorio come la ripetizione di una menzogna la renda quanto meno più plausibile ai molti. Il problema di porre un freno, quindi di identificare dei limiti, a volte anche di ordine legale, alle manifestazioni di tracotanza, alle espressioni falsificatorie, alle travisazioni deliberate, alle offese volute e ripetute, in un’espressione al bullismo mediatico, sussiste ed è una delle questioni più importanti sulla quale discutere per comprendere quale sia lo stato della nostra democrazia. Poiché queste mettono a rischio la stessa coesione sociale, quel terreno sul quale si condivide una comune cittadinanza. Non è solo un problema di minoranze vilipese ma soprattutto di maggioranze a rischio di divisione, sbandamento, strumentalizzazione, manipolazione. Il problema, oggi, non è quello dell’affermarsi di un «pensiero unico», di una «cancel culture», come certuni vanno invece affermando. Non c’è un eccesso di sanzioni, come manca anche una uniformità ideologica, due presupposti senza i quali difficilmente si può allineare le collettività su un registro unitario e monodirezionale. Semmai i tempi che viviamo sono ben diversi, essendo quelli dei “liberi tutti”, nei quali ognuno può parlare senza alcun obbligo di verifica e neanche con il vincolo della rettifica qualora essa si imponga per manifesta infondatezza delle proprie affermazioni. I contenitori e i filtri dell’intermediazione si sono rotti e da quei vasi stanno uscendo miasmi mefitici, a volte gabellati per «libertà di opinione». Si tratta di una vera e propria nobilitazione dell’istintualità, in mancanza di pensiero complesso e coordinato. Soprattutto, di senso della responsabilità. Il trend non nasce dal basso, nella società civile, ma deriva da precisi segnali provenienti dalle classi dirigenti. Quanto meno, da una parte di esse, quelle che da un tale confusione hanno da ricavarci un beneficio diretto. Un’intera categoria di politici, presenti in Italia, in Europa, nel mondo, sta utilizzando ciò che presenta come rimando alla libertà di espressione (la propria), il richiamo ad una presunta “veracità popolare”, la contrapposizione contro il «pensiero unico» e la «censura», in quanto strumenti di incitamento alla mobilitazione collettiva per indebolire il tessuto democratico e rendere plausibile – quindi accettabile – quello che invece dovrebbe non varcare in alcun modo la soglia dell’inaccettabilità. Non è una questione di galateo ma di difesa della democrazia. Altrimenti, lo stesso antisemitismo potrebbe essere rubricato sotto un tale cappello, tanto falso quanto fuorviante. Non è quindi un caso se chi cerca di agguantare il potere usando l’offesa come esercizio di finto anticonformismo, si dipinga come eterna vittima di congiure del silenzio oppure, alternativamente così come consequenzialmente, di complotti della menzogna. Ribaltando non solo sugli avversari ma anche sul pubblico medesimo le responsabilità del proprio agire. Si tratta di una condizione grottesca, dove gli istigatori all’odio e i persecutori, si sostituiscono alle vittime reali. Non è una novità nella storia recente e il fatto che possa ripetersi, ancorché in forme, modi ed effetti non necessariamente identici al passato, deve indurre ad un supplemento di riflessione. Se non altro sullo scadimento della qualità delle relazioni sociali. Anche all’interno di gruppi e comunità, reali e virtuali, che si vorrebbero non solo “omogenei” ma soprattutto capaci di formulare qualcosa di più dell’invettiva che si accompagna all’indignazione a molla, dotandosi invece di un minimo di analisi critica su ciò che sta avvenendo. L’hate speech, al riguardo, non è mai una manifestazione politica a sé stante, qualora con ciò si intenda una volontà consapevole e coordinata di agire e reagire razionalmente, ma un’istigazione alla sopraffazione che viene trasmessa, come segno di legittimazione, a chi può poi per davvero intervenire pesantemente e discriminatoriamente sulle situazioni di fatto. Il varo, per nulla consensuale, di una commissione senatoriale di indirizzo e stimolo per la lotta contro il razzismo, l’antisemitismo e le manifestazioni di odio razzista (più propriamente, di una «commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza»), rientra a pieno titolo in quest’ordine di riflessioni. Poiché il vero punto critico, in quel passaggio, è stata la compatta astensione di un nutrito gruppo di parlamentari, tutti appartenenti alla medesima area politica. Le ragioni che sono state addotte da costoro rimandano perlopiù alla necessità di non introdurre nel nostro ordinamento giuridico, e nello stesso dibattito politico, elementi così come prassi di consuetudine che potrebbero risultare anticipatoriamente censori e quindi illiberali. A fronte di ciò, sono state ripetutamente ribadite le posizioni contro l’antisemitismo e a favore d’Israele. Ora, le funzioni della commissione non disgiungono la lotta contro l’antisemitismo da quella contro i razzismi. Le due cose sono politicamente interconnesse, anche se sul piano dell’analisi, così come della valutazione dei concreti impatti dell’uno e degli altri, ci possono essere differenze di sostanza. La condanna morale, tuttavia, non è in alcun modo separabile poiché i fenomeni di pregiudizio (parole, atti, fatti) concorrono allo stesso obiettivo, ossia a disgregare il tessuto sociale e democratico, colpendo alcuni target identificati secondo un presupposto etnicista. Cosa – quest’ultima – che evidentemente non preoccupa eccessivamente parte della classe politica di oggi. Israele, nei futuri lavori della commissione, c’entra solo ed esclusivamente laddove si dovessero identificare connessioni tra l’antisemitismo e l’antisionismo. Quando si parla di ebrei, l’ossessione di alcuni “amici d’Israele” nel riferirsi a quel Paese come se fosse tutt’uno con l’ebraismo medesimo, è pari solo al recipro inverso (ed oppositivo) di tale posizione, ossia all’imputazione ad Israele e agli ebrei, intesi come un corpo unitario, di tutte le nequizie del mondo. C’è una simmetria sgradevole ed inquietante, che risponde ad un’immaginazione ideologica piuttosto diffusa, che è parte del problema, non certo sua soluzione. La lotta contro la giudeofobia, i razzismi, la deriva di senso comune nei discorsi d’odio, ha un senso se viene ricondotta ad una matrice unitaria, nella quale non si confondono i soggetti in campo ma neanche si fa esercizio di particolarismo, come se un gruppo – chiunque esso sia e a prescindere da chi venga composto – potesse vantare una primogenitura. Un tale modo d’intendere le cose è peraltro parte dello stesso dispositivo razzista, quand’anche si ammanti di ben altre intenzioni, vestendo i panni buoni della solidarietà a corrente alterna. I fenomeni storici sono sempre comparabili ma mai assimilabili; i processi di trasformazione sociale sono molteplici e non riconducibili ad una matrice unitaria; Auschwitz, per intenderci, non è di nuovo dietro l’angolo poiché la sua storia (ma non la sua memoria e tanto meno lo sforzo di pedagogia sociale e civile nel quale siamo impegnati) ce la siamo lasciati alle spalle, nella sua unicità e specificità. Dopo di che è forse bene prendere atto che la lotta contro «l’intolleranza, il razzismo, l’antisemitismo e l’istigazione all’odio e alla violenza» (i cinque elementi sui quali la commissione dovrà lavorare), essendo un fatto politico e non di buoni sentimenti, sarà sempre di più terreno di nuove divisioni e lacerazioni. Non basterà quindi invitare ad una concordia (ciò che in altri ambiti si chiama sibillinamente «pacificazione») che non sussiste, in quanto proprio sulla strumentalizzazione di questi fenomeni, ovvero sul loro utilizzo pubblico per orientare gli elettorati, una parte del ceto politico europeo, al netto delle professioni di liberalismo, sta cercando di costruire le sue fortune a venire. Non può quindi stupire che anche in Italia il voto divisivo al Senato stia conducendo ad un tale riscontro. Forse è meglio così, poiché a volte è meglio contarsi piuttosto che confondersi.

Claudio Vercelli

(3 novembre 2019)