Controvento
L’esempio del Giappone

Viviana KasamProviamo per un attimo ad astrarci dalla nostra realtà quotidiana di spazzatura ammucchiata sui marciapiedi, buche stradali, scale mobili rotte, autobus che prendono fuoco, treni in ritardo cronico, persone frustrate e aggressive, e proviamo a sognare un Paese dove tutto funziona, la gente sorride e si inchina, il noi viene prima dell’io, la parola no è considerata offensiva e non viene quasi mai pronunciata, le strade sono linde perché i cittadini si portano dietro un sacchetto di plastica (riciclabile) dove raccolgono i loro rifiuti… Non ci sono barriere architettoniche, i mezzi pubblici sono talmente efficienti che pochi utilizzano l’automobile, per cui in una città di 14 milioni di abitanti il traffico scorre senza intoppi e non ci sono ingorghi. E ancora: i taxi hanno coprisedili di pizzo bianco immacolato e i taxisti i guanti bianchi, nei treni le poltrone ruotano per mantenere i passeggeri sempre nella direzione di marcia, i bagni pubblici, disseminati ovunque anche nelle campagne più remote, sono lustri, con i sedili caldi, la doccetta incorporata, i bottoni per attivare profumi e musichette in modo da coprire odori e rumori corporei.
Sono appena rientrata da un viaggio di un mese che mi ha catapultata in una civiltà che non credevo potesse esistere. Dove gli autisti dell’autobus quando sali ti dicono: “Arigatò, grazie di essere salita sul mio autobus, spero di condurla bene a destinazione”. Dove le farmacie sono rare – perché la gente si mette la mascherina quando è malata per non trasmettere germi, non si stringe la mano ma si inchina, lascia le scarpe fuori dalla porta di casa, mangia con le bacchette usa e getta, e le porte dei taxi e i sedili dei water si aprono automaticamente così non devi toccarli. Dove il culto della bellezza e dell’armonia regna ovunque, ogni finestra, anche in città, ha la sua vista sul verde, un ramo, un fiore, un giardino zen. Nei parchi, meravigliosi, i più belli che io abbia mai visto, ci sono pensiline con sedili per sedersi a contemplare alberi potati come sculture verdi, e case per il thè con grandi finestre su uno stagno, una cascatella, una fioritura stagionale. Nei supermercati i generi di consumo quotidiano sono impacchettati con carta così raffinata che sembrano quadri: vorresti portarteli tutti a casa come opere d’arte. E i negozietti che nelle stazioni vendono bento box freschi di giornata (sono il lunch tipico dei giapponesi, che lo consumano in treno, o in ufficio) espongono scatoline così appetitose e ben confezionate da poter essere utilizzate per arredare il salotto. Persino i tombini stradali sono opere d’arte: sculture di ghisa calpestabili, ogni città ha il suo emblema ed è una gara a chi li fa più belli.
Il culto della bellezza sembra connaturato nei giapponesi – ma controbilanciato da una curiosa propensione per ciò che loro definiscono kawaì, carino, orridi pupazzetti, nanetti, pelouche che ti chiedi come possano convivere con le lacche sublimi, i vasi di ikebana, le porte scorrevoli dipinte con fiori di ciliegio su fondo oro…
Ma il Giappone è un Paese di contraddizioni. Ha la dinastia imperiale regnante più vecchia della storia, 2600 anni consecutivi, mai interrotti, con l’imperatore considerato una divinità incarnata fino al 1 gennaio 1946, quando gli alleati costrinsero il Tenno Hirohito a dichiarare via radio che la divinità imperiale era una falsa concezione e che i giapponesi non erano superiori agli altri popoli: credo che non si siano ancora rimessi dallo choc. Eppure questo Paese così spirituale, in cui trovi ovunque fianco a fianco templi shintoisti e buddhisti (la gente osserva sincreticamente entrambi i culti), il paesaggio è disseminato di alberi e pietre circondati da una corda perché ci abita un kamii, una divinità shinto, di giganteschi Torjii, portali di legno dipinti di rosso che delimitano i luoghi sacri, di cimiteri di pietra in mezzo all’abitato e ai giardini, perché la morte fa parte della vita, di sculture sacre con il bavaglino rosso offerto per proteggere i bambini, quelli nati e quelli non nati, è un Paese senza religione, con superstizioni radicate per cui trovi ovunque oracoli portafortuna, sacchettini scacciamalanni, fonti magiche. Il culto della tradizione (ancor oggi i bambini vengono vestiti con il kimono e portati nei templi a tre, cinque e sette anni, e le ragazze amano si divertono ad agghindarsi come geishe per andare a passeggio), è anche il Paese con la tecnologia più avanzata, con architetture contemporanee mozzafiato – basti pensare al Museo di Arte Contemporanea progettato dello Studio Sanaa a Kanazawa, vincitore del Premio Pritzker, o ai progetti di Tadao Ando a Naoshima e a Awaji, dove un’isola devastata dal terremoto del 1995 è stata trasformata in parco botanico, con albergo, centro congressi e una sublime chiesa spoglia.
Il Giappone dei pupazzetti e dei manga, dove c’è una statua animata alta 20 metri dedicata a Gundam, il protagonista dei cartoni animati, è anche la patria dei robot umanoidi più sofisticati, progettati nel centro ATR vicino a Kyoto, dove i neuroscienziati studiano come leggere il pensiero e registrare le immagini dei sogni. E gli adulti che spendono 700 yen per passare mezz’ora a giocare con un cane o un gatto o ad accarezzare civette nei pet bars (le case in città sono troppo piccole per poter tenere animali) sono gli stessi che progettano le tecnologie più avanzate, creano sculture viventi con i bonsai centenari e continuano a coltivare una cultura estetica raffinatissima e minimale, dove gli oggetti preziosi che si rompono non si buttano via, ma si riparano sottolineando con l’oro la screpolatura, perché la bellezza è asimmetrica e imperfetta.
Nel Paese dei treni proiettile, dei grattacieli antisismici, delle automobili avveniristiche, l’ideale della perfezione estetica sono i ciliegi, che fioriscono solo per dieci giorni e i cui petali cadono nell’apice della magnificenza senza avvizzire. Per questo i samurai, guerrieri feroci ma esteti sublimi, paragonavano il gesto considerato l’espressione di supremo orgoglio e dignità, il Seppuku (il suicidio rituale che noi erroneamente chiamiamo Harakiri) alla caduta dei fiori di ciliegio: la morte in bellezza, l’estetica dell’onore.
Ma per comprendere la radice dei valori, della storia e della cultura giapponese bisogna andare al monastero di Ise, il più antico del Giappone (e paradossalmente anche il più nuovo), il luogo più sacro e più segreto, dove solo l’imperatore e i più alti sacerdoti shintoisti possono entrare, che custodisce uno dei tre simboli del potere imperiale: uno specchio, simbolo di verità, donato dalla dea del Sole (finalmente un sole femmina!) al primo imperatore, suo nipote. In un parco che ha più o meno più o meno l’estensione di Parigi, sorgono una serie di casette di legno, spoglie salvo le travi del tetto rifinite in oro zecchino, che ogni venti anni vengono distrutte e ricostruite identiche, da 2000 anni. Tokowaka, l’eterna gioventù attraverso la rinascita, è il principio ispiratore della cultura, della filosofia, dell’estetica giapponese. Noi costruiamo templi di pietra destinati a diventare rovine, i giapponesi costruiscono fragili strutture di legno che rinnovandosi si perpetuano, entrando a far parte dell’eterno ciclo della natura che ciclicamente muore e rinasce. Come i ciliegi, i templi di Ise vengono abbattuti prima di deteriorarsi e nella ricostruzione la sapienza artigianale si trasmette di generazione in generazione, in modo che anch’essa sopravviva.
Al pari di un ikebana la cui perfezione dura un giorno, o un giardino zen che rinasce spazzolato ogni mattina, Ise è il minimalismo assoluto, è la bellezza dell’impermanenza, è la spiritualità incarnata nella natura ed è soprattutto il mistero impalpabile della vita e della morte.

Viviana Kasam

(12 novembre 2019)