Il canone di Harold Bloom

massimo giulianiCi vuole un’alta dose di self-esteem, e un editore disposto a far credito, per scrivere e riuscire a pubblicare un libro di oltre cinquecento pagine dal titolo “The Western Canon”, il canone occidentale (1994). Non furono queste condizioni a fermare il prolifico ed eccentrico ‘critico letterario’ nonché filologo e filosofo Harold Bloom recentemente scomparso a quasi novantanni, in buona parte spesi come intellettuale-contro nell’alta accademia nordamericana. Cresciuto come ebreo ortodosso di madrelingua yiddish, è considerato uno dei grandi interpreti della letteratura inglese, anzi della letteratura tout court, della quale ha voluto stilare un canone ossia una lista di ventisei autori classici che stanno alla base della nostra identità culturale perché ‘autoritativi’: i classici sono tali perché non smettono di rivelare la loro ricchezza ad ogni generazione di lettori e/o studiosi. Si va da Dante a Shakespeare, da Cervantes a Goethe, da Tolstoj a Freud, da Proust a Kafka, Borges e Pessoa, strizzando l’occhio ai fuori-lista che l’Occidente lo fondano: i poemi di Omero e il Tanakh, la Bibbia ebraica.
Nel suo canone Bloom riprende un’idea bizzarra ma degna di riflessione critica, un’idea che aveva già sviluppato nel suo libro, subito tradotto nel nostro idioma, “Il libro di J” (1990), dove J sta sia per l’iniziale del Nome tetragrammato sia per l’autore di Genesi, Esodo e Levitico (i primi tre libri della Torà) – autore nel senso in cui diciamo che Omero è l’autore dell’Iliade e dell’Odissea – e che per Bloom è in realtà un’autrice, una donna erudita ma un po’ scettica vissuta cerca tremila anni fa alla corte di Re Salomone. Quel che scrisse quest’autrice, J appunto, venne poi censurato, corretto e piegato al culto sacerdotale (maschile) nei secoli successivi, fino a Ezra: i suoi testi vennero così ripuliti dai toni ironici e scettici originali. Nel suo canone Bloom abbraccia persino la tesi avanzata da un suo recensore: l’autrice era probabilmente Bathsheva, madre di Salomone, la quale non era neppure israelita ma hittita. “Il capolavoro di Bathsheva è la storia delle relazioni tra Jod-He-Waw-He e Mosè” dove emergerebbero tutte le ambigue relazioni tra il divino – il personaggio chiamato Dio – e l’umano, narrate tra ironia e tragedia in un lampo di genio che rende questo corpus letterario ‘eterno’, fonte di perenne ispirazione. Che dire? Se Bloom volesse fare dell’esegesi, potremmo liquidarlo in fretta. Ma Bloom non è un esegeta ma un critico letterario in senso anglosassone, che significa un ermeneuta-teorico dei testi, un contaminatore di generi e di idee. Cercare una mano o una mente femminile dietro la Torà nel suo caso non è tanto un pegno pagato ai tempi (ben sapendo che Bloom non era tenero con le scrittrici di professione ‘femminista’), quanto un tentativo di scardinare assunti e precomprensioni culturali che, se decostruiti, potrebbero aprire nuovi mondi. Ebraicamente, svelare quelche nuovo volto dei settanta volti della Torà.
Che Bloom fosse affascinato dalla complessità e dalla forza euristica dell’ermeneutica ebraica è facilmente dimostrabile. Suoi libri come “Kabbalah e critica” (1975), “Vasi infranti” (1982) e “Rovesciatre le sacre verità” (1989) attestano un bisogno costante di immergersi nelle fonti classiche del pensiero ebraico: non solo il Tanakh ma anche il Talmud e la qabbalà, alla quale fu iniziato dagli scritti di Scholem. In modo molto poco ebraico e ancor meno accademico, Bloom però non cita le sue fonti, non fa note a piè di pagina, non confessa i suoi debiti culturali. Ciò lo rende di fatto esoterico e persino apodittico come i simboli e le metafore con cui ama giocare, come le interpretazioni o le ipotesi esplicative che azzarda. La libertà o la fantasia ermeneutica è un gran bene da difendere, ci insegnano i maestri, ma da sempre essa va ‘regolata’ (le tredici regole di R. Ishma‘el e le trentadue di R. Eliezer) o almeno giustificata dall’autorità della tradizione: dice il rav X a nome del rav Y. Fuori da questa catena, dalla shalshelet haqabbalà tesi, ipotesi o dottrine rischiano di pencolare in una soggettività fine se stessa e di finire nell’irrilevanza.
Con questa critica al grande critico di Yale University non voglio affatto sminuire la sua straordinaria erudizione e la sua stupefacente creatività nel comparare, analizzare e interpretare, che assomigliano molto in campo laico, ossia nella storia della letteratura (si prenda il termine in senso ampio) occidentale, alle abilità di certi enfants prodiges ebrei dell’est Europa, che giovanissimi sapevano già navigare nell’oceano dei testi talmudici e midrashici senza perdersi. Se Kafka colse nel segno nel definire Freud “il Rashi delle ansietà ebraiche contemporanee”, Bloom non è da meno nel definire Kafka (senza il quale non si capiscono Scholem e Benjamin) l’Abramo di tutte le ironie e di tutti i parodossi moderni, la cui neo-qabbalà si fa ricettacolo di tutte le nostre contraddizioni, ebraiche e non. Leggete Kafka, leggete Bloom!

Massimo Giuliani

(22 novembre 2019)