Periscopio – L’olivo e la legge

lucreziSono molti, com’è noto, i brani dell’antica letteratura cristiana che esprimono, in vario modo, il complesso, difficile e ambiguo rapporto intercorrente tra la tradizione ebraica e la nuova, emergente religione universale, che, germinata da quell’antica radice, avrebbe presto conosciuto un’impetuosa e irrefrenabile crescita, divenendo, in poco tempo, tanto più diffusa e potente di quella da cui aveva preso origine. Non poche di queste fonti (com’è parimenti noto, e come abbiamo più volte avuto occasione di ricordare su queste colonne) esprimono un atteggiamento di rifiuto, se non di disprezzo verso l’antica legge mosaica (che, utile e santa per avere permesso la venuta del Messia e la nuova Rivelazione, diventava, con la sua ostinata persistenza, inutile, nociva e provocatoria, in quanto segno di cecità e rifiuto nei confronti del Novus, Verus Israel); altre, invece, appaiono improntate a un diverso sentimento di rispetto, reverenza, gratitudine. Si può dire che sia proprio l’ambiguità, l’ambivalenza la principale cifra caratterizzante tale rapporto di derivazione: un’ambivalenza e un’ambiguità che, spesso, non sono solo intrinseche ai testi dottrinali, ma anche alla posizione di spirito di chi li legge: può ben darsi, infatti, ed è accaduto spessissimo, che un medesimo brano possa essere letto tanto in chiave filo-ebraica quanto anti-ebraica, a seconda dei diversi punti di vista interpretativi ed ermeneutici.
Caso emblematico, in questo senso, il celeberrimo passo di San Paolo, nell’epistola ai Romani, che rappresenta forse l’espressione più importante, più conosciuta e citata di tale peculiare legame, che tanto avrebbe condizionato l’evoluzione della religione cristiana, nonché le sorti dell’ebraismo e di tutta la storia della cultura occidentale. Mi riferisco alla notissima similitudine con cui l’apostolo illustra il rapporto dei cristiani con gli ebrei attraverso un’immagine presa dal mondo vegetale, ossia lo scambio di linfa intercorrente tra radici e rami di un olivo: “Se alcuni rami sono stati tagliati e tu, essendo oleastro, sei stato innestato al loro posto, diventando così partecipe della radice e della linfa dell’olivo, non menar tanto vanto contro i rami! Se ti vuoi proprio vantare, sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te” (11. 17-18). Questa immagine, com’è noto, si è prestata, nei secoli, e si presta tuttora, alle più diverse interpretazioni, talune improntate ad ammirazione e riconoscenza verso l’ebraismo (la “santa radice” che dà la linfa vitale, senza la quale il ramo, ossia il cristianesimo, non potrebbe vivere), altre a una considerazione della sua inferiorità, subalternità e mera strumentalità (la radice non si vede, sta sottoterra, e non ha alcuna utilità intrinseca, al di fuori della sua funzione di reggere e nutrire la pianta che emerge dal suolo, e che è l’unica cosa di cui si può godere, ammirandone la bellezza e mangiandone i frutti).
Molto interessanti e acute, al riguardo, alcune parole di commento al passo paolino che sono state offerte da rav Riccardo Di Segni, in un illuminante articolo (intitolato “Confronti opportuni ma difficili”), di grande spessore e profondità, destinato agli Scritti in onore del Prof. Francesco Paolo Casavola, ma già consultabile online sul sito della Rivista del Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Salerno (rivistagiuridica.unisa.it, 2019-3), che ho l’onore di dirigere.
Il Rav nota come il famoso passo di Paolo, tanto importante per interpretare il rapporto di derivazione e dipendenza del cristianesimo dall’ebraismo, possa essere usato come linea di indirizzo anche nel dibattito bioeticistico contemporaneo. Racconta, in particolare, che il Comitato Nazionale per la bioetica affrontò, nel 2014, il noto caso dello scambio di embrioni avvenuto in un ospedale romano: per un involontario incidente, degli embrioni (blastocisti) prodotti in vitro dai gameti di una coppia erano stati inseriti nell’utero di una donna di una coppia diversa, in cura nello stesso istituto. Scoperto l’errore, sorse dunque il problema di quale delle due coppie dovesse risultare affidataria delle funzioni genitoriali: la madre gestante o la madre genetica, il padre genetico o il marito della madre gestante? La discussione nel Comitato fece emergere linee interpretative diverse e, alla fine, non fu espressa una specifica preferenza, rimettendo la decisione nelle mani della magistratura.
Il Comitato, nota però il Rav, avrebbe potuto prendere ispirazione proprio dal passo di Paolo: “Se si prende la sua immagine per quello che è, e non come similitudine, con i suoi presupposti (“non sei tu che porti la radice ma la radice che porta te”) avremmo un bel modello da mettere in campo nella discussione. L’olivastro innestato potrebbe essere l’embrione impiantato, l’albero di olivo la madre gestante, e siccome è la radice che porta il ramo, il figlio spetta alla radice, la madre gestazionale”.
“Tutto questo ragionamento – continua l’Autore – è stato effettivamente fatto nelle discussioni rabbiniche recenti (…). I rabbini di oggi ovviamente non hanno citato Paolo. Ma Paolo era l’ebreo Shaul di Tarso che aveva studiato con rabban Gamliel. E l’immagine che Paolo, l’abrogatore della Legge, propone, viene proprio dal diritto rabbinico. Per capire come, serve qualche spiegazione preliminare. Prima di tutto gli innesti di specie diverse non sono consentiti. Per questo motivo probabilmente Paolo sta bene attento a parlare di olivastro e olivo, che non sono specie differenti. Il caso dell’innesto di cui parlano i rabbini dell’epoca di Paolo è collegato a un altro divieto, quello che tecnicamente è chiamato ‘ ‘orlà’ (Lev. 19:23): la frutta prodotta nei primi tre anni di vita di una pianta non può essere consumata e quella del quarto anno va riscattata. Ma che succede se si recide un ramo di una pianta nei suoi primi tre anni (chiamata “giovane”) e lo si innesta in un tronco che ha più di quattro anni (chiamato “vecchio”)? La frutta che nasce dal ramo innestato – prosegue ancora Di Segni – è da considerare ancora sottoposta al divieto, o il fatto che succhi la linfa da un tronco vecchio rende la frutta stessa “vecchia”? Paolo ci ha anticipato la risposta rabbinica, e la norma è effettivamente questa: Se un ramo giovane è innestato in una pianta vecchia, il giovane si annulla nella vecchia e non ha più la regola della ‘orlà (TB Sotà 43a). Su questo caso si basò effettivamente il primo rabbino contemporaneo che fu investito del problema” (nel 1911, per un caso di grande interesse, che lo studioso espone e commenta nel suo articolo).
Ma, al di là dei singoli casi, da tale problematica emerge un quesito di fondo: è lecito, è ammesso dedurre una regola per gli esseri umani dalla casistica botanica?
Una domanda di difficile risposta, che spinge il Rav a svolgere delle considerazioni degne di grande attenzione, che invitiamo a leggere direttamente nel testo del suo articolo, per il quale non possiamo non rinnovargli il nostro ringraziamento.

Francesco Lucrezi, storico