Piccole luci in diaspora
Ci sono bambini dalla schizofrenica esistenza, in questi giorni infarciti, perlomeno alle nostre latitudini, da alberi natalizi e vetrofanie con renne e slitte – mi pare anche di aver intravisto un’auto addobbata con tanto di corna sporgenti dai finestrini, ma potrebbe trattarsi di una mia mania di persecuzione. A scuola imparano canzoncine che hanno come protagonisti i menzionati alberi e babbi natale – perché è vero che a tre anni sono esonerati da una partecipazione attiva e diretta, il che non li sottrae però all’ascolto, nella stessa stanza, di quanto agli altri viene insegnato su questo magico periodo dell’anno, e per osmosi ne assorbono parole, ritmi, gesti, insomma quasi tutto. Poi la sera, a casa, guardano video di gan israeliani in cui loro coetanei con una coroncina a guisa di candela in testa si trasformano in una chanucchia sorridente o in un sevivon dal moto perpetuo, ed apprendono di Maccabei e miracoli, sufganiot e latkes (anzi, levivot).
In queste registrazioni appaiono brevi film di animazione e spezzoni di festicciole scolastiche, insegnanti con la chitarra e recite di Chanuccà, e dall’abbigliamento, direi bambini di scuole laiche e religiose. Così, mi sono ritrovata a pensare ad una diaspora difficile non solo per le famiglie più osservanti, ma anche per quegli ebrei meno datì o persino laici, i quali però tengono a preservare la propria ebraicità – peculiarità di un popolo che ha per patrimonio una storia comune (toledot, generazioni, con la responsabilità collettiva di trasmetterla) prima che dei precetti religiosi, ed un’identità spirituale ed identitaria comune, formatasi lasciando l’Egitto da uomini liberi.
כָּל אֶחָד הוּא אוֹר קָטָן / וְכֻלָנוּ אוֹר אֵיתָן, ognuno di noi è una piccola luce / ed insieme splendiamo di luce ferma.
Sara Valentina Di Palma