Governi deboli, uomo forte

baldacciCome è accaduto quasi sempre anche in passato, i dati forniti dalle inchieste del Censis provocano forti discussioni e interpretazioni spesso discutibili. Adesso c’è la “voglia dell’uomo forte”, che è la richiesta che verrebbe dal 48% degli italiani. Da qui l’accapigliamento tra chi si strappa le vesti per questo presunto scivolamento verso inclinazioni autoritarie, dall’altro il malcelato gongolamento di chi sente la democrazia come un fastidio.
Come tutti i dati che escono da inchieste del genere, credo che anche questo vada interpretato, soprattutto in presenza di un’opinione pubblica oscillante, che non ha più punti di riferimento culturali e politici forti e stabili, come accadeva in passato.
Ritengo, senza peccare di troppo ottimismo, che ciò che emerge da una richiesta del genere non sia la voglia di un dittatore: qualunque cosa si possa pensare, non è l’aspirazione del ritorno a un Mussolini ciò che ispira le risposte degli italiani, ma piuttosto un atteggiamento negativo, il rifiuto di continuare ad avere governi deboli, divisi al loro interno, senza prospettive programmatiche serie, capaci di affrontare i problemi strutturali della società italiana.
Qualunque sia l’opinione di ognuno, è innegabile che l’ultimo governo che ha avuto l’ambizione (o, se volete, la velleità) di governare il Paese con la necessaria continuità è stato il governo Renzi. La sua caduta, in seguito al referendum del 4 dicembre 2016, ha aperto una stagione di grande fragilità politica e istituzionale, con governi deboli e divisi al loro interno, che gli italiani avvertono come incapaci di avere una politica di ampio respiro. Ciò è stato vero con il governo Gentiloni, ma la situazione è precipitata con i due governi Conte: il fatto che uno stesso presidente del Consiglio potesse presiedere due governi con maggioranze non solo diverse ma addirittura opposte ha fatto precipitare il già fragile consenso popolare verso le istituzioni.
Ciò di cui ci si dovrebbe preoccupare – guardando i risultati del Censis – non è quindi il pericolo di una dittatura. In questo gridare “al lupo, al lupo!” sta una delle maggiori debolezze culturali della sinistra, che ha sempre visto nella presenza di esecutivi deboli una garanzia per la democrazia, mentre è vero esattamente l’opposto. Anche l’ostilità verso Matteo Renzi, che è maturata all’interno del PD ma in genere in tutta la sinistra durante il suo governo, nasceva proprio da questa insofferenza verso una guida che, almeno, aspirava a sviluppare una politica di lungo periodo. Che questa politica sia fallita anche per responsabilità dello stesso Renzi – per l’errore tattico di voler andare al referendum da solo, lasciando cadere l’accordo con Forza Italia che era ampiamente possibile; per la debolezza strutturale del suo governo formato non da una maggioranza espressa dal corpo elettorale ma da un accordo parlamentare di gruppi di varia provenienza – è sicuramente vero. Ma durante la campagna per il referendum e subito dopo il risultato sono emersi con grande chiarezza i limiti politici e culturali della sinistra italiana, che si è liberata da una leadership che aveva sentito come estranea alla propria tradizione non a causa della sua politica economica e sociale, ma proprio per il modello stesso di direzione politica che esprimeva.
La caduta della prospettiva offerta da Renzi ha aperto le porte anche a quella del suo deuteragonista, Silvio Berlusconi, lasciando la strada libera all’irruzione di un nuovo protagonista della destra italiana, Matteo Salvini. Il fenomeno Salvini e la metamorfosi della destra italiana non sono ancora stati oggetto di un’analisi adeguata. Soprattutto quella della Lega: si è finito per accettare come “normale” (oggetto al massimo di qualche battuta polemica) il fatto che un partito dalla fisionomia e dall’identità molto forti, con un programma che variava dal secessionismo al federalismo, con un netto e ostentato rifiuto dell’ideologia nazionalistica, rappresentativo di una parte soltanto del Paese, si sia in tempi molto brevi trasformato in un partito ultranazionalista, che ha radicalmente rovesciato tutta la sua cultura precedente, raccogliendo una tale quantità di consensi che lo proiettano inevitabilmente – con la leadership acquisita nello schieramento di destra – verso la guida del Paese.
Che cosa poi Salvini sarebbe in grado di fare una volta ottenuta la guida del governo è tutto da vedere. Finora Salvini ha giocato sempre di rimessa, utilizzando abilmente gli errori della sinistra: l’esempio della politica sull’immigrazione – che ha visto la sinistra attestarsi sulla scelta suicida dell’accoglienza senza se e senza ma, una scelta più ideologica che pragmatica, abbandonando quella molto più ragionevole e più duttile di Minniti – è estremamente probante perché è su questo tema che Salvini ha raccolto il massimo dei consensi, un tema che può essere facilmente mescolato a quelli della sicurezza e del timore dell’estremismo islamico, come ha fatto appunto il leader della Lega.
Salvini ha mostrato la sua abilità nello sfruttare gli errori della sinistra anche in un altro campo, sebbene in qualche modo legato a quello precedente: quello dei rapporti con lo Stato d’Israele. Di fronte a una sinistra che, nel suo complesso, continua a esprimere un atteggiamento che oscilla tra l’imbarazzo e l’ostilità (prova ne sia l’atteggiamento assunto all’ONU e nell’Unione Europea dai governi successivi a quello Renzi), e nonostante la presenza significativa, all’interno della sinistra, di voci di indirizzo opposto, è stato facile a Salvini ostentare un atteggiamento di totale solidarietà e vicinanza allo Stato ebraico. Che poi si obietti che i valori ostentati da Salvini siano il rovescio di quelli che sostengono lo Stato d’Israele, indipendentemente da chi sia a guidarne il governo, può essere consolatorio ma poco utile perché, giustamente, con il pragmatismo che li caratterizza, i dirigenti israeliani preferiscono far buon viso a chi li sostiene piuttosto che a chi li contrasta.
Ritornando, per concludere, al problema posto dai dati del Censis, chi si preoccupa di un’involuzione autoritaria del Paese dovrebbe, invece di celebrare esorcismi, scegliere la strada di una riforma delle istituzioni che permetta la formazione di governi forti e stabili: chiunque sia chiamato a guidarli, dovrà poi fare i conti con la complessità della gestione della società nel XXI secolo, che non consente facili scorciatoie e facili demagogismi. Se invece si preferisce continuare sulla strada di governi deboli e divisi, con la partecipazione di un partito come il M5S ostentatamente antimoderno oltre che antisemita, allora, alla fine, è possibile che il tessuto democratico del Paese possa lacerarsi.

Valentino Baldacci

(12 dicembre 2019)