Scrittori e politica in Israele
I due articoli pubblicati rispettivamente da Eshkol Nevo («Amos Oz se n’è andato. Le storie della sua terra no») e da Assaf Gavron («Le nuove tribù di Israele. Il primo confine di Oz») su «La Lettura», supplemento del «Corriere della Sera» dell’8 dicembre scorso – che costituiscono entrambi, come si vede anche dai titoli, un omaggio ad Amos Oz, scomparso circa un anno fa – stimolano a riprendere la riflessione sul tema del rapporto tra scrittori e politica. Scrittori, non «intellettuali», che è categoria sfuggente, inflazionata e poco significativa.
Un tema da decenni centrale in Israele, non in Italia, dove da troppo tempo non abbiamo scrittori dalla tempra morale e intellettuale in grado di porre e di porsi le domande che invece si pongono – direi quotidianamente – tanti scrittori israeliani. Ed è proprio su quello che scrivono – anche in questa occasione – i due scrittori israeliani – che appartengono a una generazione diversa da quella di Abraham B. Yehoshua, di David Grossman, dello stesso Amos Oz – che appare utile soffermarsi.
Eskol Nevo – l’autore, fra l’altro, di Neuland – per me la sua opera più affascinante – la rappresentazione di un Israele ideale collocato «altrove», in questo caso in America latina, sulla scia di quel genere che ha con grande lucidità messo in evidenza Michael Brenner nel suo Israele. Sogno e realtà dello Stato ebraico (Donzelli, Roma 2018) – propone sei micro-racconti il cui filo comune è la reazione di alcune figure di israeliani, molto diversi tra loro, di fronte alla pioggia di missili che periodicamente piovono da Gaza.
Assaf Gavron – in Italia nei giorni scorsi per presentare il suo ultimo libro (Le diciotto frustate Giuntina, Firenze, 2019) – parla invece della sua visita all’insediamento di Ofra, in Cisgiordania, un insediamento considerato almeno in parte illegale dalla stessa Corte suprema israeliana, già oggetto di una visita di Amos Oz che ne aveva parlato nel suo In terra di Israele (Marietti, Torino, 1983). Gavron – di cui non va dimenticato che una delle sue opere più significative è La collina, incentrata sul tema delle dinamiche interne di un insediamento di coloni e dei loro rapporti con gli abitanti di un vicino villaggio arabo – ripercorre le orme di Oz parlando con alcune persone dell’insediamento, che egli alla fine tipologizza come «il faccendiere, il filosofo, la millenial arrabbiata, il sognatore del Tempio»).
Cosa hanno in comune questi due scritti? Direi un atteggiamento abbastanza diverso da quello che siamo abituati a leggere in altri scrittori israeliani (e anche in altri scritti degli stessi due autori): un atteggiamento non ideologico, una disponibilità a prendere in considerazione e ad ascoltare le voci, i sentimenti, le emozioni dei cittadini israeliani oggetto degli attacchi di Hamas, nel caso di Nevo; le voci e i sentimenti di coloro che vivono ad Ofra – quelli che di solito vengono sprezzantemente chiamati «coloni» – nel caso di Gavron. E anche nel suo caso si fa sentire l’influenza del già citato lavoro di Michael Brenner, perché quello delle tante «tribù» di Israele è anch’esso uno dei temi portanti del suo lavoro.
Tanto sono interessanti gli scritti di Nevo e di Gavron – pubblicati originariamente sul quotidiano Yedioth Ahronoth – altrettanto appare fuorviante e di maniera la nota introduttiva di Davide Frattini – «Tramonta la patria dei kibbutz e diventa la casa dei coloni» – che già nel titolo denuncia il proposito di ideologizzare quello che in Nevo e in Gavron è soprattutto un tentativo di capire. In realtà Israele non è mai stata soltanto «la patria dei kibbutz» ed oggi certamente non è soltanto «la casa dei coloni».
L’utilità principale dei due scritti di Nevo e di Gavron sta soprattutto nell’uscire, appunto, dalla rappresentazione stereotipata – molto cara a una certa pigra sinistra italiana – del mondo della cultura in permanente opposizione all’establishment politico israeliano. Nevo e Gavron non sono certo due sostenitori di Bibi Netanyahu, ma nemmeno indulgono alla pigrizia mentale di coloro che credono che tutti i problemi potrebbero essere risolti con il ritiro unilaterale degli israeliani dalla Cisgiordania, ritiro unilaterale che – giova ricordarlo – da Gaza è già avvenuto nel 2005, con risultati non proprio positivi.
In questo senso i due scritti potrebbero essere letti – al di là delle intenzioni degli autori – come una critica dell’unilateralismo, dell’atteggiamento che ritiene che il conflitto israelo-palestinese possa essere risolto con atti unilaterali di rinuncia da parte del Governo israeliano. Gli atti unilaterali non hanno mai portato alla pace, in ogni tempo e ogni contesto: solo la reciproca disponibilità ad ascoltare le ragioni degli altri e a fare di questo ascolto una linea politica può fare uscire la situazione dallo stallo in cui è finita da quando Arafat a Camp David nel luglio 2000 e a Taba qualche mese dopo respinse un accordo che sembrava già fatto. Ma se in Israele sono aumentate e hanno un peso crescente le voci di chi non crede più alla possibilità di un ragionevole compromesso che permetta di ritornare alla politica «due popoli due Stati», del tutto assenti appaiono le voci della ragione in campo palestinese.
Valentino Baldacci