Contro l’arcobaleno
Afferma Vladimir Putin che «l’unica ideologia possibile in una moderna società democratica è il patriottismo». Bertold Brecht gli avrebbe risposto che «il patriottismo è l’ultimo rifugio dei vigliacchi». In verità, per essere filologicamente corretti, l’originale è attribuito al conservatore Samuel Johnson, letterato di vaglia, esponente di area anglicana, che nel 1774 pubblicò il testo «Il patriota», in cui criticava tutto ciò che giudicava come una falsa attribuzione di appartenenza nazionale. La vulgata corrente vuole che la sera del 7 aprile 1775 si producesse nella manifestazione della famosa dichiarazione, poi passata agli annali, per cui «il patriottismo è l’estremo rifugio delle canaglie». Non si trattava di un coming out contro l’identità patriottica in quanto tale ma avverso ai suoi usi manipolatori. Il casus belli era stato dettato da coloro che, come John Stuart, terzo conte di Bute, primo ministro britannico tra il 1762 e il 1763, si attribuivano un ruolo di rappresentanza di sentimenti nazionali di cui, invece, alla resa dei fatti erano – per i loro critici – da considerarsi solo dei mediocri adulteratori a proprio esclusivo beneficio personale. Peraltro, quando si urla alla «patria» come ad una sorta di entità tanto incontrovertibile e astorica quanto, alla resa dei conti, ectoplasmatica, qualche dubbio dovrebbe pure sorgere in quelle menti che non siano troppo intorpidite (e intorbidate) dai miasmi della canaglitudine. Poiché il richiamo ad essa è sempre stato utilizzato, al di fuori della nobiltà di spirito che una comunanza di sentimenti dovrebbe ispirare, alla distruzione di ogni forma di diversità e, con essa, di pluralismo. Infatti, per certuni la «patria» esiste solo se è minacciata da ciò che le è “estraneo”. Quindi, nemico. Oltre i confini (della propria fantasia, invero assai ristretta) – quindi – solo gli orchi. (Contrappasso: se noi vediamo gli altri come una minaccia, non è per nulla detto che gli “altri” non facciano altrettanto con noi: vince la partita chi è più forte, e non è per nulla detto che la propria parte lo sia sempre e comunque.) Quindi, mai avere dubbi su dove si vada a parare, alla fine della fiera, se si parte con la caccia alle streghe. Un’antica tradizione, in fondo. L’ultraconservatorismo (meglio sarebbe parlare, con una vecchia parola, di «reazione») espresso non dalla Polonia in quanto tale ma da alcuni esponenti della maggioranza politica che la governa, si sta esibendo in una miscela lievitante di superstizioni, complottismi e vocazioni a future persecuzioni (al momento verbali, poi chissà). Farne l’elenco completo, inizia ad essere quasi ingombrante: dall’eurofobia (che non è la critica dell’Unione Europea per com’è ma per l’immagine che di essa si dà, al pari di un Moloch che starebbe mettendo in discussione il futuro del paese) al ritorno di un cattolicesimo inteso non come vivacità spirituale del territorio bensì in quanto tradizionalismo quietista. Insieme a molto altro. Tra di esso, ed è ciò che ci interessa segnalare in questo caso, il fatto che al momento poco meno di un centinaio di municipalità e amministrazioni polacche, soprattutto nelle regioni sudorientali del Paese, abbiano adottato misure – peraltro giuridicamente non vincolanti – contro la presenza di ciò che ancora una volta è presentata come una sorta di depravazione «contro natura». Si tratta della costituzione di aree di interdizione territoriale nelle quali è fatto divieto di assumere iniziative a favore dei diritti dei gruppi e delle comunità LGBTQI (lesbian, gay, bisexual, transgender, questioning – oppure queer – intersex). Soprattutto – ed è un tema che ritorna in questo come in diversi altri casi – è vietato il contribuire in qualsiasi modo alle azioni poste in essere dalle organizzazioni non governative che si adoperano per promuovere la parità di diritti non solo tra i sessi ma anche tra i generi, laddove questi sono identificati come indirizzi socioculturali basati sul mutamento storico della percezione e della declinazione della propria sessualità. Politica e sesso, d’altro canto, hanno sempre nutrito strette parentele, ancorché perlopiù pubblicamente negate. Il controllo dei corpi, in chiave restrittiva se non punitiva (a partire da quello femminile), è sempre stato uno strumento di potere. Sotto la patina della «morale pubblica», infatti, si stritolano non solo le libertà individuali ma anche la redistribuzione egualitaria delle risorse, materiali e culturali. In parole povere: una società bigotta è molto più facilmente manipolabile. Magari richiamando e mobilitando la collettività – e cristallizzandone l’incoscienza – contro il «nemico alla porte». Per una parte degli ipernazionalisti polacchi, infatti, il rischio che la loro «patria» starebbe correndo è quello di essere invasa dalla «lobby LGBTQI». Qualcosa che fa il paio con la campagna contro Soros in Ungheria, per intenderci. Dove in gioco non è il ruolo di un magnate e filantropo, ma le immagini, chiaramente pregiudiziose, che si adottano per delegittimarlo, facendo ricorso all’armamentario del rifiuto delle minoranze. Sottilmente, ma neanche troppo, segnalate alla maggioranza come «estranee» al normotipo patriottico. Non è una novità ma si va ripetendo dopo i disastri delle guerre novecentesche. In Europa. C’è una Polonia che rigetta questo stato di cose: non è l’«altra Polonia», come una certa retorica di circostanza indurrebbe da subito a qualificarla, ma quella consistente parte del paese che rifiuta di diventare vittima di un oscurantismo mentale che si sposa con un neonazionalismo regressivo. Si tratta, a Varsavia come a Teheran (che c’entra quest’ultima? Eccome c’entra! Dall’onda verde in poi quanti iraniani hanno manifestato, anche recentemente, nella nostra colpevole indifferenza, per la propria e altrui libertà, pagandone personalmente lo scotto?), di un composito ceto di persone, tra di loro anche molto diverse, accomunate tuttavia dalla necessità di non diventare vittime della morsa che distrugge gli spazi residui di libertà di espressione. Anche se le due capitali sono lontane migliaia di chilometri e, fino a prova contraria, i due regimi politici sono incomparabili, rimane il fatto che nell’uno come nell’altro paese ci sono fermenti vivi. Che non devono deteriorarsi. Che dobbiamo raccogliere come Europa libera e libertaria. La Polonia della quale abbiano appena parlato, beninteso, è solo un esempio di quel moto regressivo che accompagna molte società nazionali, dal momento che vivono tutte le transizione del tempo corrente senza trovare un progetto politico che non sia solo quello della claustrofobia di regime. Un’Europa diversa, non aggrappata ai solo pareggi di bilancio e al ragionerismo metallico delle autocrazie finanziarie, dovrebbe partire proprio da ciò che già ha del suo: non il patriottismo dei felloni che si aggrappano ad una terra immaginaria ma il pluralismo delle appartenenze che si codificano nel vincolo repubblicano e costituzionale. Utopia da belle anime? Forse. Ma almeno non ci si dovrà vergognare della propria immagine riflessa dallo specchio ogni mattina.
Claudio Vercelli