Machshevet Israel
Il totalmente Altro?
Poco ebraico
“La nostalgia del totalmente altro” è il titolo di un libro-intervista a Max Horkheimer, tra i più influenti filosofi e sociologi del XX secolo: il primo a parlare di una filosofia andata ‘in frammenti’, nel 1947, sebbene non l’ultimo a metterci in guardia circa l’apocalittica laica innescata da un homo faber che ha perduto il senso della trascendenza. Negli ultimi anni il suo è stato un drammatico invito all’umanità a ritrovare, se non la strada verso il Cielo – a suo giudizio smarrita –, almeno la di lui nostalgia. Coniò così l’espressione ‘il Totalmente Altro’, estremo tentativo linguistico di dire l’Indicibile e di nominare l’Innominabile. Il volume è del 1970 ma il titolo affonda le sue radici nell’elaborazione luterano-tedesca, segnatamente in Rudolf Otto e Karl Barth, ed ebbe grande fortuna negli anni Settanta poiché marcò un sentire (più che un pensare) religiosamente alternativo, in sintonia con le teorie sulla secolarizzazione della società allora in voga. A ricordarci però che la ‘totale alterità’ non è un ‘attributo’ adatto alla visione ebraica del divino ci ha pensato quel fine teologo che fu Abraham Jeshua Heschel.
È stato un eccesso di razionalismo e un pregiudiziale rifiuto del mondo religioso tradizionale ciò che ha indotto ad abbracciare l’idea del Totalmente Diverso per parlare del divino, afferma Heschel nel suo libro sulla profezia biblica pubblicato nel 1962 (in italiano uscì come Il messaggio dei profeti, Borla 1981). “Il Dio dei profeti [biblici] non è il Totalmente Diverso, un essere estraneo, fantastico e magico, avvolto in una misteriosa oscurità, ma il Dio dell’alleanza, del quale essi conoscono la volontà, che sono chiamati a portare agli altri [ebrei e non ebrei]. Il Dio che essi proclamano non è Colui che è remoto, ma Colui che è coinvolto, vicino e interessato”. Buona parte di questo testo hescheliano è dedicato a porre in evidenza la profonda diversità tra le teologie greche, induiste e orientali rispetto alla rivelazione di Israele, il cui tratto essenziale è l’inseparabilità di lontananza e prossimità, di trascendenza e immanenza, di sublime e quotidiano. “Il Totalmente Diverso è la chiara antitesi alla consapevoelzza dell’essere umano… [ma] l’antitesi assoluta è estranea alla mente ebraica; anzi il fatto che il Signore abbia comunicato le sue vie a Mosè è una basilare certezza per la coscienza biblica”. E ancora: “Abramo e i profeti non incontrarono infatti un numen [il Numinoso, di cui parla Otto] ma la pienezza della sollecitudine di Dio”.
Nel linguaggio di Heschel sollecitudine sta per cura, premura, amore. Il teologo neo-chassidico la sintetizza con un termine greco ma carico di valori ebraici: pathos. Solo il pathos del Dio biblico abbatte la barriera del ‘totalmente’ altro e diverso rispetto all’essere umano e ciò costituisce il messaggio della rivelazione profetica, il contenuto etico della Torà, l’anima delle mitzwot. L’ira di Dio (la sua ‘narcice fumante’) non è che l’altra faccia del suo amore (dei moti dell’‘utero divino’), nei termini antropomorfizzati ossia maschio-femminili con cui i testi biblici Lo immaginano, perché, nella consapevolezza dei maestri che sono gli eredi e i continuatori dei profeti, “la Torà parla la lingua degli uomini” (R. Ishma‘el). Non c’è giustizia senza punizione del male e non c’è vera punizione se non in un Dio che che perdona dopo aver fatto prendere coscienza del valore della responsabilità, che vuole correggere i suoi figli, come fanno tutti i genitori che desiderano il bene dei propri figli. Fa sorridere che ancora qualcuno possa pensare che il Dio dei profeti, il Dio biblico per intendersi, sia ‘punitore o vendicativo’ così, stam… mentre il Dio dei cristiani sia tutto amore e perdono – a meno di essere deliberatamente marcioniti o colpevolmente superficiali. L’opposizione vera non è tra Dio di giustizia e un Dio d’amore (che nella rivelazione sinaitica sono due volti dell’unico Dio) ma tra un Dio che si fa conoscere e si prende cura dell’essere umano da una parte e dall’altra gli idoli che non se ne prendono cura e restano indifferenti al destino dei viventi, com’erano gli dèi di Epicuro.
Scrive ancora Heschel: “Non sono la legge e l’ordine in se stessi, ma quel Dio Vivente che creò l’universo e ne stabilì la legge e l’ordine a occupare il posto più alto. Si tratta di una differenza radicale dal concetto di legge come qualcosa di supremo, concetto che si ritrova, per esempio, nel dharma del buddismo mahayana… La profezia interviene a ricordare che ciò che esiste tra Dio e l’uomo non è un contratto ma un’alleanza preceduta dall’amore, dall’amore dei padri (Devarim/Dt 4,37 e 10,15)… L’idea di pathos divino è illuminante per molti tipi di rapporto tra Dio e l’uomo, sconosciuti nelle religioni prive di pathos”. Certo, dietro questo termine ci sta la complessità della vita, della libertà, di sentimenti cangianti nelle diverse esperienze; esso non esprime neppure l’essenza divina; piuttosto definisce la forma di un rapporto, il format nel quale ricomprendere sia i nostri legami religiosi (adam le-Maqom) sia i rapporti con gli esseri viventi (adam le-chaverò). “È l’unità dell’eterno e del temporale, del senso e del mistero, del metafisico e dello storico” conclude Heschel. E se invece di ‘totalmente altro’ parlassimo di ‘esigentemente etico’?
Massimo Giuliani, Università di Trento
(3 gennaio 2019)