Periscopio – Il tempo di morire
Avrò il piacere, domani, giovedì 16 gennaio, di presentare, presso l’Associazione “il Clubino” di Napoli, un libro davvero pregevole: “Il tempo di morire. Breve esortazione per una cultura della morte” (Ed. Wojtek). L’autore è un giovane magistrato, Eduardo Savarese, esperto, tra l’altro, di diritto internazionale, che ha già pubblicato pagine – tanto di narrativa quanto di saggistica – di grande impatto su argomenti delicati e importanti, quali la fede, le tendenze di genere, le libertà individuali e altri.
Stavolta al centro della sua attenzione è posto il tema eterno della morte, intesa sia come le diverse modalità in cui può avvenire il distacco dalla vita, sia come i differenti modi in cui gli uomini fronteggiano il mistero dell’essere e del non essere, costruendo, intorno a esso, le più svariate visioni filosofiche, religiose, artistiche. Non si tratta affatto, nonostante le apparenze, di un libro triste, in quanto Savarese – alternando, in modo vivace e originale, memorie personali e riflessioni morali, giuridiche, esistenziali di varia natura, esposte con ammirevole limpidezza e puntualità – introduce il lettore in un percorso di pensiero e conoscenza che aiuta a guardare con serenità a domande che riguardano tutti, e che molto spesso si preferisce invece – per paura, conformismo o semplice pigrizia – accantonare.
Tra i tanti passaggi suggestivi e stimolanti del volume, voglio segnalare, in questa sede, le penetranti osservazioni che l’autore dedica al noto passo del libro della Genesi che narra della lotta, che dura tutta la notte, ingaggiata da Giacobbe, sul guado del fiume Panuel, con un misterioso aggressore, durante la quale viene ferito all’anca. Alla fine, com’è noto, l’avversario chiede a Giacobbe di lasciarlo andare, perché sta per spuntare l’alba, ma egli risponde che non lo farà prima di essere stato da lui benedetto. Al che l’altro gli chiede come si chiama e, udito il suo nome, gli annuncia che, da quel momento, non si sarebbe più chiamato Giacobbe, ma Israele, “perché hai lottato con Dio e con gli uomini e hai vinto”. Dopo la creazione del cielo e la terra, del giorno e della notte, degli animali e delle piante, di Adamo ed Eva, si può dire che questa sia l’ultima creazione della Genesi: la creazione di Israele, un nome che passerà poi a indicare, nei secoli e nei millenni successivi, un popolo, una terra, una nazione, uno Stato. Pochi versi della Bibbia, e anche della letteratura universale, sono stati fatti altrettanto oggetto, nel tempo, di studio, commento, interpretazione. Ed è evidente a tutti come il brano sia destinato a sollevare infinite domande riguardo al suo significato. Chi è lo sconosciuto avversario? Perché avviene la lotta? Perché farsi benedire da un nemico? Perché Giacobbe cambia nome? Cosa significa la parola “Israele”?
Savarese ricorda che, secondo un’interpretazione esegetica, a combattere con Giacobbe sarebbe un angelo del Signore, che, secondo una tradizione, andrebbe identificato con l’arcangelo Uriele, non nominato, però, nel testo biblico. E racconta che, proprio mentre pensava alla stesura di questo libro sulla morte, gli è capitato di incontrare diverse volte l’arcangelo Uriele, a Palermo, nei mosaici normanni della cappella Palatina e del Duomo di Monreale, come anche nella Chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio. Gli sembrava che Uriele lo stesse inseguendo, sfidandolo, proprio come aveva fatto, un tempo, con Giacobbe. E questa impressione è diventata una certezza quando l’autore ha incontrato di nuovo, inaspettatamente, il suo “amico-avversario”, alle Scuderie del Quirinale, in una mostra sulle collezioni del Seicento italiano presso i Borbone di Spagna, in una grande tela di Mattia Preti, dedicata proprio ai sette arcangeli, tra i quali spiccava, appunto, Uriele: “vestito di rosso, un bellissimo ragazzo biondo che guarda verso il cielo, ispirato, rapito, il più mistico e misterioso dei sette”.
Quest’ultimo incontro con l’inquietante angelo diventa, per Savarese, un “guado di Panuel”, l’occasione per una scoperta e una trasformazione. Capisce, infatti che la rinascita di Giacobbe e il suo cambio di nome sono “la chiave di accesso al più vero rapporto tra Dio e l’uomo. La creatura non è supinamente assoggettata al suo creatore, ma è sollecitata dal suo stesso creatore a imparare a opporsi, e… a sopportare le ferite della lotta che non scompariranno mai più, a comprendere la necessità del combattimento; imparando a essere adulta, perché un padre e un amante veri desiderano che l’oggetto del loro amore sia … adulto, e sappia combattere, non abbia paura, non si metta in fuga dinanzi alla vita”.
E, come non si deve fuggire dalla vita, non si deve fuggire dalla morte. Alla quale, come per Uriele, non bisogna guardare come a una nemica.
Francesco Lucrezi, storico