Uccidere fino alla fine
Nel romanzo Liberazione (Adelphi) Sándor Márai racconta l’assedio di Budapest nel dicembre 1944 e gennaio 1945, quando l’Armata rossa combatteva i tedeschi e le Croci frecciate loro alleate per le strade della capitale ungherese. Il titolo è ironico, dal momento che la sospirata liberazione dall’occupazione tedesca assumerà presto un volto inatteso dalla protagonista Erzsébet. Nel corso della battaglia urbana Márai racconta delle spedizioni di SS e Croci frecciate in caccia di ebrei, che a decine di migliaia si nascondono in città con la sola speranza di una rapida avanzata dei russi. Le delazioni arrivano in cambio di un pacchetto di alimenti, ma anche senza alcuna ricompensa, per crudeltà. Seguono passi concitati, urla, un colpo alla nuca e via. Nella Budapest invernale in cui i sovietici sono già entrati – si combatte a poche centinaia di metri dai luoghi delle esecuzioni – si mostra nel modo più chiaro la coerenza del progetto nazista di guerra contro gli ebrei, una guerra di sterminio che anche quando la sconfitta militare per la Germania è ormai certa non scivola mai in secondo piano. E’ un esempio di coerenza, si diceva, e anche di razionalità interna a un sistema di pensiero criminale, non irrazionale. Anche per questo non è sufficiente, oggi, il ricordo del dolore delle vittime. E’ indispensabile porre la domanda sull’orizzonte di pensiero all’interno del quale era perfettamente ragionevole, e anzi doveroso, uccidere altri – gli ebrei – perfino quando si aveva la certezza di essere a un passo dalla fine.
Giorgio Berruto