Le pietre della Memoria a Firenze,
anche nel segno di nonno Rodolfo

Lo scorso nove gennaio sono state poste a Firenze, dopo lunga gestazione, le prime pietre d’inciampo dell’artista berlinese Gunter Demnig, che ne è l’ideatore e che ad oltre 70 anni dai fatti gira instancabile l’Europa per posarle una ad una di persona, ispirato dal passo talmudico che recita: “Una persona viene dimenticata soltanto quando viene dimenticato il suo nome”. Ad oggi ne ha posate oltre 70mila.
Tra le pietre fiorentine, quelle dei miei nonni, una zia e altri congiunti, sei persone delle famiglie Levi e Sinigaglia. Con una ricerca lunga e laboriosa, ho potuto infatti risalire all’abitazione da cui furono strappati e tratti in arresto; dato confermato anche dalla testimonianza di un nipote di chi li aveva ospitati.
Alla toccante cerimonia della posa hanno preso la parola il vicesindaco di Firenze Cristina Giachi, l’artista, il rabbino capo rav Gadi Piperno, il presidente della Comunità ebraica David Liscia, l’arcivescovo Giuseppe Betori e l’amministratore del condominio davanti al quale sono state poste le pietre, che si è dichiarato orgoglioso di esser partecipe di questa testimonianza. Presenti anche altre autorità e, cosa molto importante, classi della scuola primaria Sandro Pertini di Scandicci, un rappresentante delle quali ha scambiato alcune parole con Gunter. Spenti i riflettori dell’evento, vorrei qui riproporre un cenno biografico della figura del nonno, rav Rodolfo Levi z.l. con parole in parte tratte da una mia pubblicazione sul primo numero del 2015 de La Rassegna mensile di Israel.
Rodolfo Ya‘aqov Levi era nato a Firenze il 2 aprile 1882. Tra i compagni di studi, Umberto Cassuto. Laureato in lettere e finiti gli studi al Collegio rabbinico allora a Firenze, fu chiamato dall’Università Israelitica di Lisbona. Nel 1915, rabbino a Pitigliano, partecipò alla Prima guerra mondiale in qualità di cappellano militare volontario e svolse così, tra grandi difficoltà, attività verso i feriti, le famiglie dei caduti, curando anche la celebrazione delle festività ebraiche al fronte, anche per i soldati ebrei prigionieri. Del Pesach 5677 (1917) è il discorso pubblicato “Pesach e la liberazione degli ebrei russi”; in esso egli paragona il miracolo dell’uscita dall’Egitto a quello della peculiare emancipazione degli ebrei russi conseguente alla caduta dello zar. Nel 1926, Levi fu chiamato a Modena a ricoprire la cattedra di rabbino capo. Nel 1937, Rodolfo Levi è tra i rabbini firmatari di un vibrante e coraggioso messaggio in occasione del nuovo anno ebraico che voleva confutare le accuse antisemite del regime. Personaggio scomodo da sorvegliare, compare nelle schedature della Prefettura nella categoria più “eversiva” dei “sionisti”. Nel periodo che seguì l’8 settembre 1943, gli ebrei che avevano già perso i diritti civili con le leggi del 1938 sono in pericolo di morte. A Firenze, in questo clima, avvenne tra gli altri, la delazione e l’arresto della famiglia di Adolfo Arturo Orvieto. La mattina successiva, 6 febbraio 1944, anche il rabbino Levi fu catturato mentre si recava dal suo amico Orvieto e costretto a rivelare dove aveva trovato rifugio con la moglie Rina Procaccia e la figlia Noemi. Nella stessa abitazione conviveva anche Angelo Sinigaglia, con la moglie Amelia Procaccia, sorella di Rina Procaccia (moglie del rabbino), e la loro figlia Alda di appena undici anni. La retata portò così all’arresto, all’internamento a Fossoli e alla successiva eliminazione nei campi di sterminio di dieci persone.

(Nell’immagine grande rav Rodolfo Levi nel 1941, in basso nel 1910 anno del matrimonio)

Giulio Pacifici

(19 gennaio 2020)