Controvento – Oltre il lutto
Giovedì 23 gennaio c’erano nella sola Roma 170 iniziative per la Memoria, molte di ottimo livello. E mancavano quattro giorni alla ricorrenza ufficiale. Sarebbe fantastico se servisse a qualcosa. Invece l’impressione è che l’antisemitismo sia in aumento e che, stando ai sondaggi, soprattutto tra i millennials vi sia una scarsissima conoscenza, quando non un rifiuto, della Shoah.
Forse qualcosa non funziona nel modo di comunicare. Anni fa scrissi in una lettera pubblicata dal Foglio, sostenendo che il Giorno della Memoria rischia di diventare una gran lavanderia delle cattive coscienze, per tutti coloro che piangono lacrime di coccodrillo sugli ebrei morti nei campi di concentramento, gli ebrei “buoni,” e seminano odio verso gli ebrei vivi, quelli di Israele in particolar modo.
È doveroso ricordare la Shoah, ma non rischiamo l’effetto saturazione, che finisce per essere controproducente? “Sempre a piangervi addosso, voi ebrei, fare le vittime, come se il dolore fosse una vostra esclusiva” -è un commento che ahimè ho spesso sentito, più o meno sfumato, anche in bocca a persone che inorridirebbero se li si accusasse di antisemitismo. Una importante Fondazione canadese, la Asper Foundation di Winnipeg, ha calcolato che il 95% dei musei ebraici sono dedicati alla Shoah: come se quella di vittime fosse la nostra principale identità. Stanno ora raccogliendo i fondi per costruire un meraviglioso museo a Tel Aviv, Hakom, progettato da Frank Gehry e dedicato a ciò che gli ebrei hanno contribuito alla storia mondiale della cultura e della civiltà – il sindaco Ron Huldai ha conferito la più bella aerea libera della città, sul mare, limitrofa al parco di Hayarkon. Secondo gli ideatori di questo straordinario progetto, la cultura ebraica è stata travisata dalla trasmissione attraverso la Chiesa cattolica e dalle distorsioni della propaganda antisemita, e merita di essere conosciuta nei suoi fondamenti etici e spirituali e nelle grandi realizzazioni dei suoi esponenti di spicco, filosofi, artisti, scrittori, musicisti, medici, scienziati. Una ricchezza che è spesso oscurata dalla polarizzazione dell’attenzione sulla Shoah.
Non è facile trovare un equilibrio tra il dovere morale di rendere omaggio alle vittime e ricordare le atrocità dei nazisti e dei loro volonterosi collaboratori e silenziosi testimoni e il riaffermare l’identità ebraica nella sua ricchezza di vita. E’ quanto abbiamo cercato di fare con i Concerti della Memoria, celebrando la creatività e la forza spirituale degli ebrei anche nelle condizioni più atroci e drammatiche. Con un linguaggio non scontato, quello della musica, che va dritto al cuore, alle emozioni, scavalcando le barriere della retorica.
Ma secondo la mia personale e anche opinabile convinzione, questo non basta se continuiamo a trattare la Shoah come qualcosa che non può aprirsi alla sofferenza universale. La Shoah è stata unica, per come è stata concepita e perpetrata, per l’efferatezza, la disumanizzazione, l’industrializzazione della barbarie, come ha ben spiegato Zygmunt Bauman nel suo saggio Olocausto e modernità (il Mulino). Ma proprio questa consapevolezza dovrebbe renderci più sensibili e partecipi alla sofferenza altrui, costituire la base di un dialogo e non di una chiusura. La rigidità di chi -e con buone ragioni- sostiene che la Shoah non può essere confusa con nient’altro, rischia di creare l’effetto di “cosa loro” che, invece di sollecitare l’empatia, crea distanza e rigetto. Ovvero il contrario di quanto si vorrebbe ottenere.
E’ stata questa constatazione che mi ha guidata quest’anno nella scelta di parlare di esilio -una conseguenza della Shoah quasi sempre non considerata, perché irrilevante rispetto alla sofferenza di chi non è riuscito a mettersi in salvo- e di aprire la riflessione all’universalità del tema dell’esilio, partendo dalla specificità ebraica. In questa ricerca, mi hanno ispirata due criteri. Il lavoro di Emmanuel Lévinas sull’Altro, e sulla necessità di riconoscersi nell’Altro, nello straniero, e le parole dell’Esodo: “non opprimere lo straniero, perché tu fosti straniero in terra d’Egitto”. Che sono un invito a non rinchiuderci nella nostra sofferenza ma a utilizzarla per aprirci alla sofferenza dei nostri confratelli umani. Sono convinta che se ne fossimo capaci, nel massimo rispetto delle nostre vittime e dei nostri testimoni, il Giorno della Memoria potrebbe aiutarci a superare molte barriere e incomprensioni, e a gettare un ponte contro l’antisemitismo.
Dopo aver scritto queste righe, sono andata ieri sera al concerto di Noa per il Giorno della Memoria al Lac di Lugano. Mi ha colpito che la cantante israeliana abbia espresso gli stessi concetti. Ha parlato dell’Altro, e della necessità di aprirsi umilmente alla sofferenza di tutti, ha cantato, come abbiamo fatto noi, una canzone napoletana di esilio, ci ha deliziati con un omaggio a Bach, il padre della polifonia – ovvero la combinazione di più voci indipendenti che si evolvono simultaneamente mantenendosi differenti dal punto di vista melodico, ma regolate dagli stessi principi armonici, metafora della pace – e ha concluso con la Vita è bella, il leitmotiv del film di Benigni da lei composto e reso celebre, sottolineando la necessità di superare il lutto guardando al futuro.
Viviana Kasam