La doppia vita del Bund
Assistiamo da ultimo ad un fenomeno in qualche modo reazionario, se non altro laddove si ripropongono dei fantasmi del passato come se fossero la continuità di qualcosa che non si sia mai interrotto. Il Bund, per chi non lo ricordasse, è stato un meritorio e meritevole movimento operaio ebraico che reagiva ai soprusi subiti nella Russia zarista e nell’Est europeo, proponendo una certa autonomia ebraica assieme al raggiungimento di un sistema socialista, dando per scontato che il problema ebraico si risolvesse col trionfo del proletariato.
Sennonché, anche se molti non se ne sono ancora accorti, il comunismo, piaccia o meno, è bell’e finito, e sussiste in modo abbastanza feudale, per via della persistenza al potere della stessa famiglia, soltanto in Cuba e Corea del Nord.
L’unica sede (peraltro non a livello nazionale ma locale) in cui il comunismo ha trionfato è il kibbutz; il resto è stato un fallimento.
Il Bund fu spazzato via dall’Olocausto e dal successo del sionismo, il quale ha dimostrato che se il Medio Oriente è pericoloso, la vita nella Diaspora ciclicamente lo è di più. Rimane qualche comunità bundista nostalgica in Argentina ed Uruguay, qualche cosa negli Stati Uniti, contrassegnati peraltro da un tasso vertiginoso di assimilazione.
Dal punto di vista teorico, il Bund si basava e si basa sul perseguimento dell’autonomia culturale, configurando una pretesa corriva, perché per i marxisti non può esservi sovrastruttura senza infrastruttura. Non a caso, i Bundisti se guardano bene da qualsivoglia analisi marxista benché la loro base sia proprio il marxismo.
Poiché non si tratta, oggi giorno, di ravvisare la presenza di soggetti più o meno bizzarri o folkloristici, ma di persone serie, è giocoforza domandarsi il perché di questa presenza e di qualche sporadica rivendicazione. La sola spiegazione che abbiamo è che la pressione potentissima tendente a demonizzare lo Stato d’Israele e l’impossibilità di fare, per dire, il pro israeliano (il sionismo ha esaurito il suo compito con la creazione d’Israele, ed è rimasto soltanto sul piano individuale di coloro che intendano emigrarvi per una realizzazione propria oppure per mille altri motivi) in determinati ambienti palesemente incompatibili, renda improrogabile il ricorso ad una valvola d’uscita, da reperire non nel mercato dell’elettronica bensì nei musei.
Il discorso è diverso per i non ebrei, laddove questa riproposizione dovrebbe comportare una diffusa conoscenza propedeutica di questa problematica, e qui bisogna dire che la letteratura esistente non è molta, per non dire del mondo dell’insegnamento. In questo caso, è ineludibile una menzione dell’opera meritoria di Vincenzo Pinto, un intellettuale dotato di una inesauribile curiosità, la cui produzione andrebbe acquisita e studiata.
Emanuele Calò, giurista