Padova – Il richiamo dell’Ani Maamin

A Padova sono le 19.27 del 26 gennaio 2020. La sala dell’Auditorium Pollini è gremita di persone. Ci sono più persone rispetto a quelle presenti ai concerti che in passato si sono tenuti a Padova in occasione del Giorno della Memoria. È giusto notarlo e ricordarlo. Perché oggi si esce sempre di meno per assistere a un evento pubblico. Alle 19.27 il rabbino capo di Padova, rav Adolfo Locci, intona accompagnato dagli Shirè Miqdash, l’Ani Maamin, l’Io Credo. Le parole recitano: “Io credo, Io credo, Io credo. Con fiducia completa, Io credo nella venuta del messia. E anche se dovesse ritardare, Nonostante tutto, io lo aspetterò. Io credo…”. Le prime due note dei primi due “Io Credo” formano un intervallo che nella teoria musicale è chiamato “quarta giusta”. È un incipit che nella musica occidentale è stato da sempre fondamentale. E che è stato spesso associato o ai richiami o agli allarmi. La marcia trionfale dell’Aida inizia con un intervallo di quarta. E…molto più prosaicamente, anche la sirena della polizia si muove su un intervallo di quarta.
Come mai allora anche l’Ani Maamin inizia su un intervallo di quarta?
Perché l’Ani Maamin è un richiamo. Un richiamo coraggioso e necessario al credere di poter cantare anche di fronte all’incredibile. Un richiamo coraggioso che proviene dalla straziante storia che sta dietro alla nascita di quella melodia. Storia che rav Locci ha giustamente voluto inserire nel programma del concerto distribuito al pubblico. Eccola:
“Azriel David Fastag, un pio della dinastia Modzitzer, le cui composizioni erano regolarmente cantate nella corte del rebbe Shaul Yedidya El‘azar. Secondo una tradizione avrebbe composto la melodia in un carro bestiame mentre veniva deportato nel campo di sterminio di Treblinka. Durante il viaggio, Fastag disse che avrebbe lasciato la metà della sua parte del mondo futuro a chi sarebbe riuscito a portare la melodia al rebbe che, nel frattempo, era fuggito dall’Europa. Due uomini accettarono la sua offerta e saltarono dal treno in corsa. Uno morì nella caduta ma l’altro sopravvisse e portò la melodia in Israele al figlio del rebbe, Shmuel Eliyahu Taub, che poi consegnò al padre. Testo: basato sul dodicesimo dei “tredici principi di fede” formulati dal Mosè Maimonide (Cordova, Spagna 1135 – Al-Fustat, Egitto 1204). Alcuni usano recitarlo durante il cerimoniale della cena pasquale, in ricordo della rivolta del ghetto di Varsavia che ebbe inizio durante la prima notte di Pesach, la Pasqua ebraica, nel 1943. Il brano è cantato in diverse cerimonie commemorative.”
“Cantare il credere” persino mentre ti stanno trasportando al macello come una bestia. “Cantare il credere” nella venuta di un mondo radicalmente più buono del nostro. Ma anche “cantare il credere” nella sopravvivenza del “cantare il credere” attraverso la trasmissione a un altro uomo persino in quelle impossibili condizioni di trasmissione.
La frase sembra un po’ complicata. E forse lo è. Lo è, non a caso. Per ricordare quanto sia complicato quel “cantare il credere”. Del resto, ricordare la Shoah è una cosa complicata. Perché esiste sì, grazie al cielo, un livello di memoria della Shoah che non complicato, che risponde a una immediata umanità. Ma per ricordare a fondo “che questo è stato” bisogna voler entrare in un universo che non è di immediata comprensione a un primo ascolto. Ci vuole un ascolto particolare.
Il titolo scelto da rav Locci per il Concerto della Memoria è infatti “ascolta!”, eco sempre presente e sempre necessaria dello Shemà Israel, il cui testo risuona non a caso per tre volte: all’inizio nel “Terezin Ghetto Requiem” dell’autrice Silvye Borodova, nel mezzo in quello composta dal vice direttore del Conservatorio di Padoca, Annie Fontana, e alla fine in quello, cantato da Rav Locci, composto dal “Maestro” don Marco Frisina, Rettore della Basilica di Santa Cecilia in Trastevere e compositore di numerosi canti liturgici e colonne sonore di molti film a tema storico e religioso.
E se c’è stato un momento di questo concerto intitolato “ascolta!” in cui l’eco dello Shemà si è fatta musica concreta…quel è stato il momento in cui da uno degli altoparlanti dell’Auditorium Pollini è risuonato il brano che più di tutti ha dato l’idea alle nostre orecchie occidentali di quanto sia complicato l’ascolto della memoria della Shoah.
Si tratta di “Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz”, opera per nastro magnetico, coro, voce di soprano e materiale elettroacustico, composto e realizzato da Luigi Nono presso lo Studio di Fonologia della RAI di Milano nel 1966. Uno studio di fonologia nella Milano del boom economico è un luogo ben più comodo e umano di un carro bestiame diretto verso un campo di sterminio. Eppure Luigi Nono – che nel 1966 era già sposato da 11 anni con Nuria Schönberg, figlia di Arnold Schönberg, sommo compositore fuggito negli Stati Uniti per sfuggire ai nazisti – riuscì a trasmettere come pochi…come pochi… che anche ad Auschwitz era necessario “cantare per credere”…anche se ormai il canto si è fatto emissione di una voce senza parole, una voce che innalza note che unite assieme facciamo fatica a definire “cantabili”, tanto sono apparentemente “anti-melodiche”. Eppure si deve poter credere di cantare anche così. Perché cantare è un atto di resistenza, di sopravvivenza, di credere. Credere in un mondo in cui anche solo una nostra nota del nostro “cantare il credere” arriverà nel mondo a venire.
Perché come recita uno dei brani finali del concerto, Lo Amut:
“Io non morirò, anzi vivrò, E racconterò le opere dell’Eterno. L’Eterno mi ha fatto soffrire davvero, Ma non mi ha dato alla morte. Aprite per me le porte delle giustizia, Io entrerò in esse e celebrerò l’Eterno. Questa è la porta che porta all’Eterno, I giusti passeranno in essa.”

Francesco Castelnuovo

(28 gennaio 2020)