Il piano Trump visto dal mondo arabo
In Israele le risposte rispetto al piano di pace di Trump hanno seguito una logica piuttosto scontata: la destra lo ha accolto con grande favore – ad eccezione dell’estrema destra che non vuol proprio sentir parlare di uno Stato palestinese -; il centro (Kachol Lavan) lo ha definito un buon piano su cui lavorare; la sinistra lo ha bocciato perché troppo schiacciato nell’esaudire le richieste della destra. E mentre il confronto interno si è accesso – in particolare sulla possibilità di estendere già nei prossimi giorni la sovranità sulla Valle del Giordano – è inevitabile guardare a cosa accade nel campo palestinese e in quello più ampio dei paesi arabi. Mahmoud Abbas, leader dell’Anp, ha perso da tempo il sostegno del suo popolo ma cerca, anche con il no a Trump, di riguadagnare una posizione di riferimento. Lo ha fatto negli scorsi giorni, convocando una riunione d’emergenza di tutta la leadership palestinese a Ramallah, la capitale de facto dell’Autorità palestinese in Cisgiordania. In un passo senza precedenti, ha anche invitato i rappresentanti politici dei suoi nemici giurati di Hamas e della Jihad islamica (e questo, dopo una telefonata con il capo politico di Hamas, Ismael Haniyeh). .
Come in passato, Abbas ha annunciato di voler modificare gli accordi di Oslo del ’93 e di voler sospendere del tutto il coordinamento della sicurezza israelo-palestinese. “Abbas – spiega l’analista israeliano Neri Zilber – per essere sicuro, ha fatto queste minacce prima ma la sua posizione ora è più acuta. L’annessione della Cisgiordania da parte di Israele sarebbe, in termini reali sul campo, un cambiamento di paradigma dopo oltre due decenni di sforzi di pace (come intendeva l’amministrazione Trump)”. Da qui la decisione di cambiare anche lui. “Il suo principale strumento per far capire a Israele, Stati Uniti e al mondo la sua contrarietà – scrive Zilber – è probabilmente quello di mobilitare i manifestanti per le strade della Cisgiordania. Come parte del coordinamento con le forze israeliane, le forze di sicurezza dell’Anp spesso impediscono che tali manifestazioni si coalizzino e si riversino in zone sensibili – strade ad alto scorrimento, checkpoint, insediamenti – tra il controllo palestinese e quello israeliano”. Ora questo impedimento potrebbe essere sollevato senza però considerare, afferma Zilber, una eventuale manifestazione armata. Per l’analista israeliano la mossa più pericolosa ed estrema in mano ad Abbas può essere la mobilitazione della milizia popolare del suo movimento Fatah, la Tanzim, da tempo dormiente dopo la Seconda Intifada (2000-2005)”. A Zilber un funzionario dell’esercito ha spiegato che se la Tanzim venisse davvero mobilitata di nuovo allora Israele “si ritroverebbe in un nuovo giorno”.
Diversi paesi arabi non sembrano disposti a promuovere un nuovo conflitto e per questo i palestinesi si muoveranno con cautela rispetto a possibili violenze. L’Egitto per esempio ha invitato entrambe le parti ad analizzare bene il piano americano: non un endorsement ma comunque una posizione possibilista. Oman, Bahrain e Emirati Arabi Uniti sono proprio schierati a favore del piano (i loro rispettivi ambasciatori erano presenti all’annuncio del piano alla Casa Bianca) per cui per loro non solo ogni violenza palestinese è esclusa ma Abbas dovrebbe mettersi al tavolo e trattare.
I giordani non hanno invece apprezzato ma sono usciti pubblicamente con cautela. In una dichiarazione, il ministro degli Esteri Ayman Safadi ha detto che la Giordania continuerà a lavorare con i Paesi arabi e la comunità internazionale per “il raggiungimento di una pace giusta e duratura che soddisfi tutti i legittimi diritti del popolo palestinese”. L’Arabia Saudita di Mohammed bin Salman, il grande alleato di Trump, ha applaudito gli americani per l’impegno ma non ha dato il suo endorsement. Questa ambiguità dei vertici di diversi paesi può giocare a favore del piano Usa ma perché la pressione porti i palestinesi davvero a scegliere la via delle trattative serve molto di più.