Dossier di Pagine Ebraiche Spazi privati e pubblici, quali confini
Un filo da pesca sottile e trasparente percorre l’isola di Manhattan, a New York. In tutto, corre per circa 28 chilometri, delimitando un confine virtuale. Si tratta di un eruv, ovvero la recinzione (reale o simbolica) che serve nell’ebraismo a estendere il proprio domicilio privato anche agli spazi pubblici, permettendo di eludere il divieto di non trasportare di Shabbat. Il divieto infatti vale per gli spazi pubblici, non per quelli privati. E la parola eruv significa appunto “mescolanza” ed è un’abbreviazione di eruv chatzerot, cioè “mescolanza di domini”: l’unione di più domicili privati in un unico domicilio comune. I confini si mescolano anziché delimitare e basta. E su questa idea di confini che si muovono, che cambiano a seconda di chi li traccia, è incentrato il Dossier di Pagine Ebraiche di Febbraio, attualmente in distribuzione. Di confini infatti parla la mostra Sag Schibbolet! esposta allo Juedische Museum di Monaco e presentata nelle sue varie opere nel Dossier. A partire dalla pronuncia di una parola, racconta un episodio biblico, l’esposizione riflette come sia facile costruire muri e confini. Ma altrettanto farli cadere o renderli permeabili. Tra le opere della mostra di Monaco c’è ad esempio L’Erouv de Jérusalem (1996) dell’artista Sophie Calle in cui sono raccolte – attraverso delle fotografie – le storie dei residenti ebrei e arabi di Gerusalemme. A loro Calle ha chiesto di descrivere quali spazi pubblici della città percepissero come privati o personali. Nell’installazione originale, venti fotografie di pali di Eruv circondavano una mappa di Gerusalemme contrassegnata con le storie raccontate a Calle, accanto alle fotografie dei luoghi che le descrivevano. Le storie raccontano di confini territoriali e personali invisibili, di luoghi pubblici e comuni segnati dai ricordi privati: un albergo della città vecchia di nome Casanova dove si sono incontrati due amanti; una roccia dove un bambino giocava in un campo che poi è diventato il terreno della Residenza del Presidente. I luoghi messi sotto la lente da Calle non hanno un particolare significato oggettivo una strada, una panchina – ma acquistano significato grazie all’esperienza personale. È un’opera che ci ricorda quanto siano porosi i confini e come i luoghi acquistino significato solo se gli uomini e le donne ve ne attribuiscono uno.
Chi sul significato dei confini, dei luoghi, delle strutture ha costruito la propria carriera è l’altro protagonista del Dossier: Arieh Sharon, l’architetto che ha pianificato Israele. A lui – figlio della scuola del Bauhaus di Dessau – il primo governo guidato da David Ben Gurion affidò il compito di progettare il Piano nazionale d’Israele. E Sharon – con i suoi colleghi – su di un tavolo da lavoro tracciò i confini interni dello Stato appena nato: centinaia di progetti che andavano dalla costruzione di unità abitative alla realizzazione di poli industriali. Si trattava in questo caso di giocare con i confini, con lo spazio a disposizione, per dare una fisionomia a un paese fino ad allora concentrato in tre città: Tel Aviv, Gerusalemme e Haifa. Lavorando su pubblico e privato, Sharon – non senza contraddizioni e problemi – riuscì a trovare il giusto equilibrio.
(Foto in alto, Billie Grace Ward)