L’uomo che piantava gli alberi

Giorgio BerrutoIn occasione di Tu Bishvat, il capodanno degli alberi, il Get (Giovani ebrei Torino) ha organizzato la proiezione del film di animazione di Frédérick Back “L’uomo che piantava gli alberi” (1987), tratto da un racconto omonimo di Jean Giono del 1953. Conoscevo già questo piccolo capolavoro della durata di appena 30 minuti e premiato con l’Oscar al miglior film di animazione, ma approfitto di questa nuova visione per tentare alcune concise riflessioni. Cinque anni di lavoro sono stati necessari per la produzione della pellicola, tutta composta da una sequenza di disegni a matita colorata sfumata su fogli di acetato. Il risultato è una serie di figure aperte in calde ed eleganti tonalità pastello, fluttuanti come se fossero portate da quel vento che è un compagno di tutti giorni “in quella regione delle Alpi che penetra in Provenza”, dove si svolge la vicenda. Questo movimento è accentuato da una colonna sonora che utilizza perlopiù i rumori della natura: il vento stesso naturalmente, lo stormire delle fronte degli alberi, i ruscelli, il cinguettio degli uccelli.
Il film racconta dell’incontro del narratore, durante la camminata in una zona arida e abbandonata della Provenza, con il pastore Elzéard Bouffier che offre al viandante acqua e ospitalità. Il giorno seguente vediamo il pastore, uomo di poche parole, piantare ghiande: di lì a qualche anno saranno querce. Intermezzo: la prima guerra mondiale con il suo portato di distruzione per gli uomini e per la natura. Dopo la guerra il narratore torna nella regione e scopre che intere valli sono coperte da giovani alberi – querce, faggi, betulle -, costellate da sorgenti e ruscelli, abitate da uccelli e altri animali. Incontra Elzéard Bouffier, che continua ogni giorno, con disciplina e metodo, a piantare nuovi alberi. Dopo la seconda guerra mondiale perfino il villaggio che decenni prima era stato abbandonato viene ripopolato da uomini stupefatti di fronte a un simile “miracolo della natura”.
Di Tu Bishvat e dell’etica ambientale ebraica, fondata saldamente nella Mishnà e nel Talmud, nel film ho visto entrambi i momenti fondamentali. L’aspetto negativo, che può essere sintetizzato nel divieto bal tashchit, “non distruggere”; significa che l’uomo dell’ambiente che lo circonda non è padrone – solo il suo creatore può essere considerato tale – ma verso di esso è responsabile e quindi deve evitare ogni abuso, sfruttamento, sperpero. Nel film vediamo anche l’alternativa a questo comportamento di corretta amministrazione e cura di un patrimonio che non è nostro, rappresentata dalla distruzione per eccellenza, la guerra (che, detto per inciso, è sempre una catastrofe anche ambientale). Ma c’è anche l’aspetto positivo, secondo cui possiamo e dobbiamo migliorare il mondo che troviamo e di cui siamo parte. Il misterioso Elzéard Bouffier trasforma con opera paziente e ostinata una landa desolata in un paradiso, mostrando con l’esempio che “gli uomini potrebbero essere altrettanto efficaci di Dio in altri campi, oltre alla distruzione”. Il suo intervento è di aiuto al narratore, che all’inizio del film subisce l’asprezza di una regione dalle risorse limitate dagli agenti naturali e esaurite dall’irresponsabilità umana, e quando gli alberi crescono e cominciano a formare nuovi boschi determina il ritorno della vita animale prima e umana poi.

Giorgio Berruto