“Moishe House, calore e inclusione”
I giovani romani si raccontano

Accoglienza, calore, identità. Ma anche continuità e responsabilità. Sono tante le parole chiave di Moishe House, progetto internazionale che, nato in California nel 2006, conta oggi su una significativa rete di nuclei abitativi in tutto il mondo. Ci vivono giovani adulti, dai 20 ai 35 anni, che hanno il compito di organizzare momenti di incontro e aggregazione ebraica per i loro coetanei. In cambio Moishe House paga loro metà dell’affitto e copre le spese legate agli eventi, oltre a fornire un’assistenza continua su questioni di vario genere. Ad oggi si contano 125 Moishe Houses, per un totale di 25 Paesi coinvolti. Da qualche mese anche l’Italia fa parte della rete. Merito in particolare della Consigliera UCEI Sabrina Coen, rappresentante dell’Unione presso lo European Council of Jewish Communities, che è partner di Moishe House, e che in questa sede ha promosso un’esperienza di condivisione anche a Roma. 
Un luogo animato dal novembre scorso da tre giovani amici: Valentina Calò, Alessandro Gai, Alessandra Sabatello. Diciotto finora le iniziative organizzate dentro e fuori la casa: lezioni di Torah, attività legate allo Shabbat, alle feste, alla cucina ebraica. 
“È un progetto bellissimo che aiuta a creare riferimenti ebraici per i giovani, dando loro la possibilità di avere un ruolo attivo e di responsabilizzarsi. Un nuovo modello aggregativo efficace e con una visione” sottolinea Coen, promotrice di una serata a porte aperte rivolta a un pubblico eterogeneo. Un’occasione, per i tre protagonisti del progetto, per raccontare qualcosa del loro percorso e delle loro scelte. 
“Grazie a Moishe House sento di aver raggiunto un diverso grado di coinvolgimento ebraico. È molto bello e gratificante” ha esordito Alessandro, ricordando la sfida ma anche il piacere di mettersi in gioco in mezzo ai tanti altri impegni della quotidianità. “Dopo sei anni trascorsi lontano da Roma – ha detto Valentina – ho avvertito un senso di smarrimento. Mi serviva un nuovo spazio, un nuovo canale per sentirmi partecipe e attiva anche in campo ebraico. L’ho trovato”. Sensazioni vissute anche da Alessandra, che ha parlato di progetto nel segno della massima inclusione. “Anche per questo – ha affermato – la casa è completamente kasher. Per poter accogliere tutti, rispettando i diversi livelli di osservanza”. 
Prima di loro a prendere la parola era stato Adam Rossano, direttore internazionale del progetto, che ha raccontato come Moishe House abbia cambiato la sua vita di giovane ebreo inglese cresciuto a Bournemouth, città con una esigua presenza ebraica, e poi ritrovatosi a condividere una casa a Londra. “Moishe House – ha osservato – mi ha permesso di rapportarmi in modo nuovo e più intenso all’ebraismo. È un progetto che fa crescere senso di appartenenza e consapevolezza in una fascia d’età delicata, che rischia talvolta di perdere un legame forte con l’ebraismo”. Roma rappresenta in questo senso un investimento importante. Potenzialmente la prima di altre case che potrebbero essere supportate in Italia. Prima però, spiega Adam, andrà fatta una valutazione di sostenibilità. “La volontà di crescere comunque c’è” conferma Coen, che ha parlato di vera e propria community in consolidamento attorno a questa iniziativa. 
Presenti alla serata inaugurale, conclusasi con l’affissione della mezuzah, diversi esponenti dell’ebraismo italiano e romano: la presidente UCEI Noemi Di Segni, i rabbini rav Benedetto Carucci Viterbi e rav Amedeo Spagnoletto, l’assessore dell’Unione Livia Ottolenghi, che è anche Consigliere della Comunità ebraica di Roma, i Consiglieri dell’Unione Guido Coen e Davide Jona Falco, gli assessori della Comunità romana Raffaele Rubin e Alessandro Sermoneta. 

(20 febbraio 2020)