Pagine Ebraiche Febbraio 2020
Presepi di tutto il mondo, unitevi

Anche il presepe entra a pieno titolo tra i simboli utilizzati da chi non perde occasione per alimentare incomprensioni e storture sulle complesse vicende mediorientali. Lo racconta sull’ultimo numero di Pagine Ebraiche Andrea Atzeni, il docente che ha già firmato diverse inchieste per il giornale dell’ebraismo italiano dedicate a come il mondo cattolico racconta l’ebraismo sui libri di testo usati nelle scuole e a come in classe, non di rado, si diffondano in modo strumentale ostilità e pregiudizi verso lo Stato di Israele.

A differenza di altri orpelli confessionali, il presepe nei luoghi pubblici non si impone sulle pareti, non troneggia in forma monumentale, non ingombra piazze e vestiboli, non invade la toponomastica e le intitolazioni. È pure temporaneo, scade con certe festività ormai secolarizzate e condivise, al pari dell’alberello e di Babbo Natale. Rappresenta un quadretto di vita familiare e non sacrifici e morte. Spesso non è riprodotto in serie ma lascia spazio alla creatività e al gioco dei bambini. È quasi discreto, inoffensivo, persino simpatico.
Sennonché anche il presepe viene spacciato per simbolo di valori universali dei quali si rivendica il monopolio. E, grazie a questa copertura, viene variamente strumentalizzato. Allora, se i puristi bigotti sono sempre pronti a rimproverare la presenza di qualsiasi gingillo fuori luogo tra i personaggi del presepe, gli assennati dovranno piuttosto tenerne presente il significato profondo e insieme porre attenzione agli anacronismi più insidiosi.
Nel mito originario l’odio e il sangue sono tutt’altro che assenti. Secondo il vangelo di Matteo alcuni “magi” arrivarono dall’oriente dopo essere stati avvertiti della nascita di un nuovo re dei Giudei dal sorgere di un astro. Dopo averli ascoltati, allo scopo di prevenire qualsiasi minaccia al suo trono, Erode il Grande avrebbe ordinato di sterminare tutti i bambini di Betlemme sotto i due anni. Gesù sopravvisse solo perché i suoi genitori vennero avvertiti in sogno del pericolo e poterono tempestivamente riparare in Egitto. Chiunque può giudicare da sé l’attendibilità di un simile racconto. Notiamo solo che di tutto ciò non vi è alcuna traccia storica, neppure della cosiddetta strage degli innocenti. Tuttavia la familiare immagine dell’ebreo potente che, per proprio tornaconto personale, non esita a massacrare masse inermi, di bambini magari, non ha certo bisogno di prove. Ci sono anche gli ebrei buoni, d’accordo, che però sono solo quelli morti, o al limite perseguitati. Posto che si vogliano davvero considerare ebrei l’attempato falegname, l’immacolata vergine deipara e, soprattutto, lo stesso Gesù.
Basti pensare alla storiella del Gesù palestinese. Banksy ce ne ha di recente offerto una sua versione plastica sotto forma di sacra famiglia con retrostante muro di separazione crivellato da un colpo di artiglieria a mo’ di cometa (anche se, virtù dell’arte, il quadretto può esser visto al contrario rappresentare un’inerme famiglia ebraica protetta dall’apposita barriera). Quattro anni fa persino Bergoglio ha celebrato la messa nella basilica della Natività a Betlemme davanti a un presepio murale con Gesù e familiari ammantati di kefiah. L’anno dopo ha parlato del Gesù del presepe come di un migrante cui era stata rifiutata l’accoglienza. Quest’anno se ne uscito con Maria e Gesù meticci. Ma questi sono solo alcuni dei casi più eclatanti. Vediamone a titolo d’esempio uno più provinciale e personale.
Durante la scorsa vigilia di Natale mi trovavo in Sardegna. All’ora di pranzo do un’occhiata al telegiornale regionale di Rai 3 e mi imbatto in un servizio non annunciato nel sommario e introdotto con queste parole: “Duecentocinquanta presepi da ogni parte del mondo. Il vero simbolo delle festività in mostra a Sassari grazie all’associazione…”. Il servizio parla dei “materiali più diversi”, della “natività che come simbolo di pace, accoglienza e fratellanza abbraccia ogni popolo”, di “250 presepi in totale”, da “Sardegna, Russia, Perù, Kenya, Ecuador, Palestina”, di “un successo di visitatori: oltre 600 gli studenti delle scuole dai più piccoli ai più grandi in due settimane di apertura”. In conclusione si capisce che la mostra era ospitata presso un pubblico liceo della città.

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Viene spontaneo chiedersi: chi ha curato l’esame, la disposizione e la presentazione dei materiali? Dal punto di vista strettamente didattico quali sono state le aree di interesse (religiose, storiche, geografiche, artistiche, antropologiche ecc.)? Chi e come ha potuto garantire la validità scientifica dell’operazione? I presepi sono opera di artisti o di spontanea devozione popolare, sono stati fabbricati per la mostra o sono stati solo raccolti per l’occasione? In particolare chi, come e con quali criteri ha potuto raccogliere tale materiale in giro per il mondo (certo non il personale docente o gli studenti della scuola)? L’associazione esterna a che titolo è stata coinvolta o accolta dalla scuola? Si è trattato di un’iniziativa esclusiva di questo istituto? Rientra in qualche progetto scolastico dalle finalità più generali?
Queste domande le ho poi gentilmente rivolte via email sia al preside dell’istituto sia all’associazione, ma finora non mi è pervenuta nessuna risposta. Il dirigente del liceo, intervistato durante il servizio, in effetti aggiunge: “Una classe del nostro liceo sta partecipando con l’associazione… a un progetto, che prevederà conferenze e seminari di geopolitica, di economia, riguardanti proprio anche le problematiche dell’immigrazione”. Ma i presepi sono attinenti alla geopolitica, all’economia e a una adeguata trattazione delle problematiche dell’emigrazione? Dal web si apprende che “La collezione, inizialmente di proprietà di un socio fondatore dell’associazione e di sua moglie, ora appartiene alla presidente dell’associazione stessa”. Dunque se il socio avesse avuto altri interessi la scuola avrebbe ospitato collezioni di francobolli o farfalle da tutto il mondo? O non si sarebbe trattato di soggetti abbastanza geopolitici?
Qualche nesso con tematiche come l’immigrazione si trova sempre. Veniamo ora ai nessi con l’associazione, il cui nome abbiamo fin qui sostituito con dei puntini: “Ponti non muri”. Durante il servizio viene intervistata una sua portavoce: “I bambini sono curiosissimi. All’inizio non sanno bene cosa aspettarsi e noi cerchiamo di fargli capire un po’ la collocazione del presepe, quindi Betlemme geograficamente dov’è e cosa succede. Non dobbiamo dimenticare che è una città invisibile, perché tutti pensiamo alla grotta ma Betlemme è circondata da un muro alto fino a 8 metri lungo 750 km, e versa in grandi difficoltà economiche, e la popolazione vive questo da troppi anni, è come vivere in un carcere a cielo aperto”. Eccolo il muro eponimo! Infatti nel sito dell’associazione leggiamo che “L’Associazione Ponti non muri nasce con la finalità di creare un ponte tra due culture, la nostra e quella palestinese. Il nome prende spunto dal muro reale che circonda e chiude la Città di Betlemme come un carcere a cielo aperto”.
Nel servizio viene intervistata anche la guida dei ragazzi: “Natali, 25 anni, palestinese che dall’inizio del 2018 vive a Sassari” (quindi è evasa dalla prigionia?). Ammette che a Betlemme ultimamente non si vive poi così male (ma non era una galera a cielo aperto?), “ma fuori della città c’è sempre limitazione di movimento, perché sempre ci sono check point per andare da una città all’altra, diciamo dentro i territori palestinesi, Cisgiordania, West Bank”. Ed ecco il suo “messaggio per questo Natale”: “Di avere la pace un giorno, sicuramente, nel mondo e soprattutto in Palestina”. Chi e perché abbia costruito il cosiddetto muro e a quale scopo, non viene detto. Chi impedisca veramente la pace in Palestina e rifiuti il dialogo con le altre culture, neppure.
A cercare ancora un po’ nel web, si scopre che Natali (nomen omen) è una calciatrice e ha studiato scienze motorie, la portavoce dell’associazione invece ha superato un corso professionale di informatica, è stata scout e ama il canto. Chissà se sono tutti di questa levatura gli esperti di geopolitica di cui si giova il liceo. Si scopre pure che la mostra è stata visitata da 1200 persone (tra cui almeno 600 bambini delle scuole) e, il giorno di chiusura, dal benedicente vescovo della città che si è pure portato via come omaggio un presepe betlemita in madreperla. Nella rete si trovano inoltre varie cronache fotocopia che ripetono acriticamente la stessa velina dell’associazione. Non meno prone sono le principali testate locali.
Su La Nuova Sardegna (il quotidiano più diffuso a Sassari e nel nord Sardegna) del 13 dicembre 2019 leggiamo: “Il presepe come simbolo di pace, di accoglienza, solidarietà, di fratellanza fra i popoli. Il presepe moltiplicato per 250, a testimoniare l’universalità di quel messaggio e la profondità del suo radicamento nel cuore di tutti gli uomini. È la mostra ‘I presepi del mondo. Tutto ci unisce, niente ci divide’, organizzata dall’associazione ‘Ponti non muri’, nell’ambito del progetto finanziato dalla Fondazione di Sardegna, e con la collaborazione del Liceo ‘Margherita di Castelvì’ di Sassari. L’esposizione è stata inaugurata nei giorni scorsi negli spazi del Liceo con la partecipazione del dirigente, della vice presidente della Fondazione di Sardegna e del vice sindaco del Comune di Sassari. Molti dei presepi esposti arrivano direttamente dalla Palestina, da Betlemme, con cui Ponti non muri ha un antico e fecondo rapporto di collaborazione, altri dalla Sardegna”. Segue comparazione tra i migranti, che tutti scapperebbero da non meglio precisate guerre per non essere ben accolti nelle nostre città, e quel bambinello che trovò riparo in una stalla perché non c’era posto in albergo. Per finire: “Con il progetto, inoltre, Ponti non muri vuole ricordare che il luogo della nascita del Bambino del Presepe, Betlemme, è la Palestina, terra segnata da decenni di guerra e occupazione, con una popolazione stremata ma resistente. E che ai nostri tempi, l’arrivo di Gesù, che tanto viene atteso e festeggiato ogni anno in Italia e nel mondo, verrebbe catalogato come l’arrivo di uno straniero extracomunitario”.
Gli stessi contenuti si ritrovano su L’Unione Sarda (il quotidiano più diffuso dell’isola) del 5 dicembre. Ci viene comunicato che diversi presepi “arrivano proprio dalla Palestina”; e che l’associazione intende “ricordare che il luogo della nascita del Bambino del Presepe, Betlemme, è la Palestina, terra segnata da decenni di guerra e occupazione, con una popolazione stremata ma resistente”. La presidente dell’associazione dichiara di voler “offrire spunti di riflessione per una visione di accoglienza solidale nei confronti di chi arriva da Paesi con mille difficoltà e dopo mille peripezie”. E ancora: “Ai nostri tempi, l’arrivo di Gesù nella nostra terra, che tanto viene atteso e festeggiato ogni anno in Italia e nel mondo, verrebbe catalogato come l’arrivo di uno straniero extracomunitario. Gesù è anche una figura che unisce le tre religioni: ebreo di nascita, poi cristiano, e profeta importantissimo per i musulmani”.
Occorre fermarci qui. Purtroppo o per fortuna ci manca una magica cometa che ci guidi da ogni parte del mondo o anche solo in giro per il nostro Paese al cospetto di tutti i simili, certo numerosi, presepi, mostre, scuole e servizi giornalistici ispirati ai valori più alti e ai più buoni sentimenti. Quando però ci capitano davanti, anche solo per caso, è sempre doveroso segnalarli.

Andrea Atzeni, Pagine Ebraiche Febbraio 2020