Una resistenza senza armi
C’è da chiedersi perché la vicenda degli internati militari italiani – cioè dei soldati che furono catturati dai tedeschi in seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943 e rinchiusi in campi di concentramento in Germania e nell’Est europeo – sia stata fino a tempi recenti sostanzialmente trascurata dalla storiografia. Tanto maggiore è quindi il merito di Mario Avagliano e Marco Palmieri che hanno colmato questa lacuna con un lavoro approfondito ed esauriente: I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi 1943-1945. Il Mulino, Bologna, 2020.
Forse le ragioni della scarsa attenzione verso la tragedia degli Imi (così vennero chiamati dalle iniziali dell’espressione “Internati militari italiani”) stanno in una certa visione della Resistenza da parte della storiografia dominante: una visione epica che privilegiava le azioni armate dei partigiani inquadrati in formazioni che facevano riferimento ai partiti antifascisti, mentre a lungo c’è stata scarsa attenzione alle vicende della vita quotidiana della popolazione, soprattutto del Centro-Nord, sottoposta alla duplice pressione dei bombardamenti alleati e dell’occupazione tedesca. Ancor minore attenzione è stata data, come abbiamo detto, alla vicenda dei militari che l’8 settembre e nei giorni successivi furono sorpresi dall’armistizio sia sul territorio nazionale sia in territori stranieri, in particolare nei Balcani, dove si trovavano come truppe d’occupazione, senza direttive da parte del governo Badoglio. La mancanza di direttive politiche e militari provocò lo sbandamento dell’esercito e la facile cattura da parte delle truppe tedesche dei militari italiani che furono inviati in massa nei campi di concentramento.
E’ da questa situazione che muove la puntuale ricostruzione storica di Avagliano e Palmieri che hanno basato la loro ricerca, oltre che sui documenti d’archivio, sulle testimonianze di prima mano fornite dagli stessi internati attraverso i diari tenuti soprattutto, ma non soltanto, dagli ufficiali e le lettere inviate a casa che in qualche modo erano sfuggite alla censura. Soprattutto dai diari si sente parlare la viva voce dei protagonisti, che narrano una storia fatta di fame, di freddo, di violenze, di morte.
La lettura dei diari impone una riflessione sulle analogie e sulle diversità della condizione degli Imi rispetto ai deportati nei campi di concentramento nazisti in base a un piano di sterminio del popolo ebraico e di altre categorie di persone destinate all’eliminazione. La differenza essenziale sta nella mancanza, nei confronti degli Imi, di un piano sistematico di sterminio. Gli Imi erano in una condizione assimilabile a quella dei prigionieri di guerra e quindi – nonostante il disprezzo dei nazisti verso la convenzione di Ginevra – non era programmabile nei loro confronti uno sterminio di massa.
In realtà i piani dei nazisti nei loro confronti prevedevano due variabili: la prima era costituita dal loro sfruttamento come forza lavoro, l’altra il loro inquadramento nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana che Mussolini e Graziani stavano cercando di costituire. Ed è su questo punto che sta la differenza essenziale rispetto ai deportati nei campi di concentramento nazisti per ragioni razziali o politiche: questi ultimi non avevano scelta, il loro destino era segnato; mentre gli Imi una scelta l’avevano: potevano sottrarsi alle durissime condizioni dei campi di prigionia solo che accettassero di aderire alla Repubblica fascista.
Questo è il punto di fondo della ricostruzione di Avagliano e Palmieri: la grande maggioranza degli ufficiali e dei soldati italiani, pur avendo la possibilità di sottrarsi alla prigionia e alle durissime condizioni dei campi di concentramento, rifiutarono di farlo per non aderire al fascismo repubblichino; dettero la precedenza alle ragioni dell’onore militare e della dignità personale rispetto a quelle della salvezza individuale. Se si pensa che questo rifiuto di massa coinvolse circa un milione di persone non si può che meravigliarsi che un tale episodio – uno dei pochi luminosi in una vicenda bellica dove prevalsero l’opportunismo e la vigliaccheria – non abbia finora avuto il posto che merita nella storia nazionale.
Valentino Baldacci