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Fondane, mistico senza religione

massimo giulianiTra i pensatori ebrei critici verso la modernità occorre annoverare, dopo Scholem e Strauss, anche Benjamin Fondane, il discepolo di Lev Šestov. Nato a Iaşi nel 1898, crebbe in una famiglia assimilata ma che aveva dato all’ebraismo della Romania un paio di importanti studiosi: uno storico e un riformatore scolastico. Intellettuale perspicace e poeta precoce, si formò negli anni della crisi europea d’inizio Novecento ‘alla scuola di Nietzsche’ e ne divenne un esemplare: sradicato e inquieto, insensibile a ogni nazionalismo (sionismo incluso), in esilio senza ben sapere da cosa, alla perenne ricerca di un maestro che alla fine, al suo arrivo a Parigi (cacciato di fatto dal suo paese natale ormai infetto da febbri antisemite) nel 1923, trovò nell’esule russo Šestov, nato Schwarzmann (Kiev 1866-Parigi 1938). Divenuto quasi il suo personale messia, questi gli indicò la strada di un ritorno all’ebraismo di impronta biblica: antirazionalista, antimoralistico, semiascetico e filoprofetico nel solco di Geremia e di Giobbe. Tra i moderni, il faro non poteva che essere Kafka. Fu un mistico Fondane? Sì, ma senza religione. Uno strano ba’al teshuvà, che non cercava la fede ma l’illuminazione, e che da ultimo scelse (sebbene potesse evitarlo) di salire sul treno per Auschwitz, nella tarda estate del 1944, per non abbandonare la sorella.
La figura di Fondane riflette il crogiuolo di tutte le opzioni che oltre un secolo fa si aprivano all’ebraismo nel cuore dell’Europa: per farsene un’idea basta immergersi nei suoi ‘scritti sull’ebraismo’ che Giuntina ha pubblicato da poco con il titolo “Tra Gerusalemme e Atene” (a cura di Francesco Testa e Luca Orlandini, pp.302). Titolo di per sé non originale, ma che richiama l’opus magnus del suo maestro, quell’“Atene e Gerusalemme”, scritto in russo e divulgato in francese, di cui proprio Fondane ci ha dato la sintesi là dove, celebrando l’essenza ebraica di Šestov nella di lui ‘ricerca del giudaismo perduto’, nel 1936 scrive: “Molti ebrei di nascita – Bergson, Freud, Einstein – non lo sono affatto ‘essenzialmente’; lo sono meno rispetto a un Pascal e un Kierkegaard, giacché l’uno fa appello al Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, mentre l’altro abbandona platealmente Hegel per volgersi a Giobbe e ad Abramo”. E aggiunge: “Se gli ebrei intendono essere ebrei, come i teceschi sono tedeschi e gli indigeni del Guatemala guatemaltechi, è arrivato il momento di affermarlo: se la loro intenzione è quella di essere ‘il popolo eletto’ a buon mercato, sarebbe ora che aprissero gli occhi”. Gli occhi degli ebrei, a suo avviso, sono stati a lungo chiusi per eccesso di razionalismo e di retorica progressista, e il solo capace di aprirli è quell’isolato ma originalissimo filosofo ebreo-russo sempre controcorrente, che lottò contro Hegel e Husserl (altro ebreo che volle ignorare di esserlo), icone di Atene, e che indagò il messaggio di Gerusalemme in Shakespeare e Pascal, in Nietzsche e Dostoevskij. Nella sua lotta contro le evidenze, eroe di pensiero tragico e della precarietà dell’esistenza, Šestov è per Fondane “il filosofo ebreo per eccellenza” che stimola un ebraismo accecato dai miti moderni a “tornare indietro”.
Tornare indietro significa, per maestro e discepolo, recuperare dottrine rimosse o obliate: l’idea di peccato originale (di cui il cristianesimo si è appropriato); il senso dei miracoli; la vena tragica del pensiero biblico; la coscienza dell’elezione divina. “Ha ancora senso un popolo ‘eletto’? – si chiede Fondane – E in questo caso, non siamo forse, nella storia, la più insolente delle assurdità? Ammettiamolo: se l’ebreo, unico esempio nell’antichità, ha testimoniato l’effettiva presenza di Dio, nel nostro mondo moderno egli potrebbe come minimo testimoniare con altrettanta angoscia l’assenza di Dio! Solo, nel mondo moderno, ed esempio unico nell’ebraismo, Lev Šestov rappresenta questa angoscia”. Commentatore e ideale continuatore pressoché unico del suo maestro, Fondane è ‘orientale’ tra gli occidentali e ‘occidentale’ tra gli orientali, un mistico tra i filosofi e il più filosofico dei mistici, anti-spinoziano e anti-maimonideo, tra i pochissimi in tutta la storia ebraica capace di schierarsi dalla parte di Rabbi Eliezer, sconfitto dalla maggioranza dei suoi colleghi e che persino il Cielo tentò di difendere. Ricordate Rabbi Eliezer in Bava Metzià 59b, la storia del forno di Aknai? A sostegno della sua tesi questo maestro chiese agli alberi di sradicarsi, e quelli si sradicarono; chiese all’acqua del fiume di scorrere contro corrente e quella lo fece; chiese ai muri della sinagoga di inclinarsi e quelli s’inclinarono… Ma i saggi fecero finta di non vedere, o quando videro – invece di arrendersi ai miracoli – li dichiararono ‘argomenti non validi’. La conclusione è sorprente: anche il giudaismo, elevando a verità l’opinione della maggioranza, “ha legato le mani a Dio stesso” rifiutando la testimonianza dei miracoli. Benjamin Fondane, nel solco di Šestov, difende Rabbi Eliezer: ne comprende la desolata solitudine, ne condivide l’angoscia, dà voce alla sua delusione che il Talmud invece lascia inespresse. Si può dissentire ma difficile non rendere al mistico rumeno quel kavod – rispetto e onore – che ogni opinione di minoranza, se sincera, merita.

Massimo Giuliani, Università di Trento

(12 marzo 2020)