Machshevet Israel
Il Ba‘al Shem Tov
e l’epidemia
Non siamo certo la prima o l’unica generazione a vivere un’epidemia. Senza ricorrere al Boccaccio o al Manzoni, possiamo consultare nella storia ebraica almeno un episodio assai istruttivo, che ha come protagonista il fondatore del chassidismo, Israel ben Eliezer, noto come il Ba‘al Shem Tov (il Besht), vissuto tra i Carpazi orientali e il fiume Dnieper (regione della Podolia) nella prima metà del XVIII secolo. Di lui l’unico testo scritto che resta è una lettera, che dettò e inviò – non è chiaro da dove – a Gerusalemme, probabilmente nell’anno 5510 (tra il 1749 e il 1750 e.v.) a suo cognato, il talmudista Avraham Gershon di Kutow che aveva sposato la sorella del Besht. Chiamata “la santa lettera”, è forse il documento storico più attendibile che possediamo per comprendere la personalità del suo autore e l’esperienza mistica da cui è sorto il movimento chassidico. Non dev’essere sottovalutato. Di tale lettera abbiamo tre versioni, non troppo dissimili, ma quella circolata sin dall’inizio tra i chassidim venne pubblicata a Koretz nel 1781, nell’opera Ben Porat Josef del discepolo Ya‘akov Josef di Polonnoye. In essa il Besht si rammarica che altre missive tra loro non siano mai giunte a destinazione, “a motivo dei nostri peccati” – scrive – che hanno reso problematiche le comunicazioni tra gli stati. Ma le vere ragioni di quei problemi di posta internazionale sono spiegati nella riga seguente: “L’epidemia si è diffusa su tutte le terre, raggiungendo anche i luoghi nei quali abitiamo, la santa comunità di Mogilev e i territori della Volinia…”. In effetti nel 1747 era scoppiata una pandemia di vaiolo (qualcuno dice fosse colera, o la solita peste, ma è difficile accertarlo) tra Europa e Medioriente, e le cronache annoverano tra le vittime anche il qabbalista patavino Moshe Chayim Luzzatto e la sua famiglia, poco dopo il viaggio che da Amsterdam li portò in terra d’Israele, nel porto di Akko.
Non fosse stato abbastanza il colera, in quell’anno vi fu un’accusa di omicidio rituale contro gli ebrei di Izyaslav, in Ucraina, con processo e condanna a morte anche per quegli ebrei che, sperando di salvarsi, si erano fatti battezzare (ne parla lo storico Simon Dubnov). Nel 1748 la medesima accusa cadde sulla comunità di Dunayevtsy ma gli accusati qui non vennero riconosciuti colpevoli. Il Ba‘al Shem Tov attribuì tali immense disgrazie all’angelo Sama’el [il Satan], che però agiva “con il permesso dall’alto”. Nella sua ‘ascesa dell’anima’ nei cieli superni, il cui resoconto è l’oggetto primario della lettera al dotto e santo cognato, il Besht vide questa “grande accusa” e, dice, “gli fu dato il permesso di chiedere a Sama’el perché anche gli apostati furono messi a morte (benché divenuti cristiani) e la risposta fu: per insegnarvi che cambiar casacca non serve dinanzi agli antisemiti… lezione che l’ebraismo europeo avrebbe ri-appreso a sue spese con la Shoà. Il Ba‘al Shem Tov vide poi, nell’ascensione mistica del 1749 raccontata sempre in quella lettera, che altre accuse simili si stavano diffondendo e che nuovi massacri di ebrei sarebbero seguiti. Allora osò implorare: “Meglio per noi perire per mano del Signore piuttosto che per mano degli uomini”. E ciò, a suo dire, si compì: più veloce dell’accusa del sangue giunse l’epidemia, “un morbo di enorme violenza e senza precedenti in tutte le terre di Polonia e nei territori a noi adiacenti”. Allora, con i suoi compagni, il Besht recitò preghiere appropriate affinché l’epidemia si fermasse, ma il Cielo gli avrebbe risposto: “Tu stesso hai chiesto un’alternativa, e ora la vuoi annullare? Non si può essere ad un tempo accusatore e difensore!”. Così per un po’ il pio fondatore del chassidismo desistette da quelle preghiere, ma nel giorno di Hoshannà Rabbà, lui e i suoi compagni, presi da immensa angoscia, si recarono in sinagoga e alzarono suppliche affinché l’epidemia non invadesse il loro distretto, ed essa, “grazie a Dio”, si fermò.
A fronte della fama di eccezionale taumaturgo goduta in vita dal Ba‘al Shem Tov, questa storia non è gran cosa; ma, ripeto, essa è stata dettata e quindi quasi scritta di suo pugno, mentre il resto dei miracoli stanno in agiografie elaborate dai discepoli e dai discepoli dei discepoli diversi decenni dopo la sua morte. E non è l’aspetto miracolistico, quel che dovrebbe colpire di più. L’episodio è piuttosto l’esemplificazione di un principio chassidico, anzi qabbalistico, che si trova sparso in molte fonti della mistica ebraica, ossia che gli zaddiqim hanno il potere di influenzare le decisioni superiori, persino se provengono da Qadosh Barukh Hu. Dice in sintesi il detto chassidico: “Il Santo benedetto decreta, e lo zaddiq annulla”. Annullare un decreto di condanna è qualcosa che il giudaismo conosce bene: Abramo cercò di annullare il decreto di condanna su Sodoma e Gomorra; Mosè annullò il decreto di condanna sull’intero popolo che aveva peccato ai piedi del Sinai con l’atto idolatrico del vitello d’oro; Mordechai e Esther annullarono il decreto di sterminio di Aman e Achashverosh; e a ogni Kippur si prega perché il giudizio di condanna si volga in giudizio di misericordia… Forse la fede ebraica sta tutta qui, nel credere che, con un atto di teshuvà, si può “annullare il decreto”. Se la condanna e il male sono incontrollabili, il riscatto e il bene sono nelle nostre mani.
Massimo Giuliani, Università di Trento
(27 marzo 2020)