La libertà religiosa di fronte all’emergenza

giorgio sacerdotiEra inevitabile che davanti ad una pandemia mondiale come quella del coronavirus, che ha investito l’Italia con particolare virulenza, le misure straordinarie di contrasto andassero a limitare vari diritti fondamentali dei cittadini, primo di tutto quello di movimento e di libera circolazione.
I divieti di assembramento, cioè di riunioni pubbliche e private anche in pochissime persone, di libera circolazione nel territorio nazionale, addirittura al di là dei confini del proprio comune, se non per ragioni particolari (lavoro, acquisti essenziali, sanitarie, necessità) severamente verificate, in deroga agli art.16 e 17 della Costituzione, non potevano non toccare anche i diritti di libertà religiosa.
Non quello essenziale di professare (o non professare) la propria fede religiosa – che è un aspetto del più ampio diritto alla libertà di opinione ed espressione – ma per il fondamentale aspetto che questa libertà implica anche la professione della religione “in forma associata” e quella  di esercitarne “in privato e in pubblico il culto”.
Nell’ebraismo la dimensione collettiva della fede, del culto e dei riti è essenziale, a partire dal minian per cui le funzioni religiose, ma anche un funerale in cui si possa doverosamente recitare il kaddish, non possono svolgersi se non vi partecipino almeno dieci uomini. La dimensione collettiva dell’ebraismo va ben più lontano: essendo l’ebraismo l’espressione di un gruppo sociale, la religione di un popolo, soprattutto nella diaspora dove gli ebrei sono una piccola minoranza non potersi riunire per svolgere qualsiasi attività collettiva ha un impatto dirompente.
Non a caso l’Intesa tra Stato e Ebraismo del 1987 (Legge 101/89) riafferma questa dimensione collettiva anche oltre il dettato costituzionale. Le Comunità sono riconosciute come “formazioni sociali originarie”; è ribadito il diritto di esercitare in privato e in pubblico il culto e i riti propri della religione ebraica, così come è garantita ai singoli ebrei e alle nostre organizzazioni la piena libertà di riunione.
Nell’attuale straordinario momento per combattere la diffusione della pandemia invece, i decreti emanati a getto continuo, al confine della legittimità costituzionale (a causa dell’assenza di un immediato intervento del Parlamento e i non chiari limiti di scadenza), non solo hanno impedito di fatto le funzioni religiose aperte al pubblico dei fedeli di qualsiasi religione, ma hanno disposto specificamente la chiusura delle chiese e il divieto di manifestazioni religiose collettive.
Le istituzioni religiose si sono adeguate mal gré bon gré, a questa situazione senza precedenti, non senza qualche esitazione e resistenza da parte di gruppi di fedeli. Così il Vaticano e la Chiesa cattolica italiana, così le organizzazioni dei musulmani in Italia. Nell’ambito ebraico il dovere di attenersi alle restrizioni, pubblicamente condiviso dalle nostre istituzioni civili e religiose, è stato giustificato in due modi: la prevalenza sulle misure volte a preservare la vita umana rispetto alle prescrizioni rituali e l’obbligo di rispettare le norme legittime dello Stato (Dina d’malkhuta dina).
In verità qualche contrasto c’è stato, inizialmente non in Italia. Il governo inglese, tra le tardive misure emanate dopo aver proclamato che la diffusione del contagio avrebbe rafforzato gli anticorpi tra la popolazione, ha sancito l’obbligo della cremazione, misura forse praticamente opportuna davanti a tanti decessi (così purtroppo è stato giocoforza in certe parti d’Italia), ma non certo indispensabile per frenare la diffusione del morbo. Davanti alla decisa opposizione di ebrei e musulmani il governo Johnson ha prontamente fatto marcia indietro.
In Italia infine, è di pochi giorni fa la certificazione dell’Unione delle Comunità e dell’Assemblea rabbinica, da esibirsi ad eventuali controlli, che dichiara gli spostamenti per approvvigionarsi di azzime per il Seder e Pesach sono una “necessità” che li giustifica ai sensi dell’ultimo decreto in materia (senza però richiamarlo espressamente). Resta però il doloroso fatto che per le imminenti festività le famiglie non potranno riunirsi come ogni anno per ricordare insieme la liberazione dall’Egitto nell’Italia piagata come allora la terra del Nilo.
 
Giorgio Sacerdoti