La fine senza fine
Mangiare solo a casa propria, rinunciare alle cene con gli amici, non poter prendere neppure un caffè al bar. Fino a un anno fa (ma sembra che siano passati secoli) queste limitazioni duravano solo otto giorni e già prima dell’inizio di Pesach pregustavamo le piccole gioie della fine: la pizza fragrante appena uscita da un forno a legna, il conforto di un buon caffè prima di entrare al lavoro o bevuto con i colleghi, e tante altre piccole cose che forse in otto giorni neppure avremmo avuto il tempo o la voglia di fare ma che la proibizione rendeva straordinariamente desiderabili. Naturalmente era una specie di gioco: Pesach è una festa gioiosa, e tutto si può dire tranne che sia un periodo da cui si esce affamati, anzi, si va avanti per otto giorni a gustare prelibatezze che non compaiono sulle nostre tavole in nessun altro momento dell’anno. Certo, qualche proibizione appare irrazionale (che probabilità c’è, per esempio, che una caramella alla menta contenga una benché minima traccia di cibo lievitato?), ma dato che ha una scadenza certa la si può accettare senza troppe difficoltà. E comunque siamo noi stessi ad imporci le nostre regole e se le interpretiamo diversamente da qualcun altro la cosa più grave che ci può capitare è che questa persona non mangi a casa nostra o che noi non mangiamo a casa sua.
Niente di simile per l’incubo che stiamo vivendo: Pesach è finito ma di soste al bar non si parla neppure lontanamente, l’unico caffè possibile con i colleghi è quello bevuto ciascuno a casa propria e chissà quanti mesi passeranno prima di poter mettere di nuovo piede in una pizzeria. Per di più questa volta non abbiamo a che fare con limitazioni autoimposte, ma con proibizioni che arrivano dall’esterno e che non ci possiamo permettere di violare anche quando non ne capiamo la ragione, anche quando ci sembra che vadano esattamente nella direzione opposta rispetto allo scopo che vogliono ottenere (perché, per esempio, ci è consentito di camminare solo in prossimità di casa nostra, anche se viviamo in zone affollate, e non possiamo andare in mezzo ai campi o nei boschi dove possiamo sperare di non incrociare nessuno?). C’è poi anche un’altra differenza: a Pesach per quanto siano rigide le limitazioni che ci autoimponiamo, si tratta comunque di cose possibili, che dal nostro punto di vista sono sufficienti. L’incubo che stiamo vivendo è angosciante non solo perché non se ne vede la fine ma anche perché si ha sempre la sensazione di non fare abbastanza: quanto può durare una mascherina? Come posso evitare al supermercato di girare intorno a uno scaffale e trovarmi a pochi centimetri da qualcuno che sta girando in senso opposto? Quanto è pericoloso toccare i soldi? ecc. E se a Pesach le proibizioni sono comunque innocue, in questo periodo talvolta sembra che le uniche cose che ci è permesso fare fuori di casa siano proprio quelle pericolose. Anche i discorsi che si sentono sulla cosiddetta “fase due” non promettono di alleviare nessun disagio della nostra vita quotidiana, ma solo di riprendere alcune attività costringendo le persone a spostarsi e rendendoci tutti ancora meno sicuri. Per questo il ritorno alla normalità, quando arriverà, non sarà comunque un momento gioioso ma, nel migliore dei casi, sarà una ripresa timida e preoccupata dopo un periodo angosciante, con il dubbio che non sia una fine ma solo una tregua.
Anna Segre