Machshevet Israel
Il sorriso divino e (è) umano

massimo giulianiLo scrittore Milan Kundera, nel saggio L’arte del romanzo, riporta un proverbio (a suo dire) ebraico: “L’uomo pensa, Dio ride”. Qualcuno dice che si trovi nel Talmud ma ne dubito, e neppure ho mai sentito un maestro che l’abbia citato pari pari. Certamente François Rabelais, padre indiscusso del romanzo europeo, l’avrebbe capovolto, dato che nelle Scritture il Creatore ha molti ripensamenti, soprattutto all’inizio, mentre – si legge nell’incipit del Gargantua e Pantagruele – “meglio è di risa che di pianti scrivere, ché rider soprattutto è cosa umana”. Ambiguo, come ogni aforisma un po’ oracolare: è ‘soprattutto’ ossia specificamente dell’uomo il ridere; ma può anche significare ‘sopra tutto’: è dell’uomo saper ridere di ogni cosa. Ma la questione del riso o del sorriso divino non è peregrina, tutt’altro. Ve n’è ampia traccia sia nelle Scritture sia nel Talmud. Sul riso umano, invece, all’inizio del Novecento hanno scritto due tra i maggiori pensatori ebrei del tempo, con saggi che continuano a essere stampati e studiati: nel 1899 apparve in rivista il lungo saggio Le rire, di Henri Bergson, mentre nel 1905 Sigmund Freud pubblicava il suo studio sul Witz, il motto di spirito, che poi riprenderà con altro taglio nel 1927 focalizzandosi sull’umorismo. Ebrei assai diversi tra loro, erano accomunati da non pochi interessi scientifici tra cui quest’aspetto dell’umana esperienza: la capacità di relazionarsi attraverso il ridere e il sorridere. Da allora nessuno può considerare il tema come triviale o secondario e banalizzarlo. Ogni risata presuppone un pensiero, e ogni vero pensiero conosce la polisemia del ridere. Sia Dio sia l’uomo ridono, e questo riso/sorriso va pensato. Cioè, va interpretato.
Nella tradizione ebraica uno dei passi più famosi nei quali si dice che Dio abbia sorriso è la pagina del Talmud Babilonese Baba Metzià 59b, la storia del forno di Akhnai. Nell’impossibilità di riportarla per intero con tutti i suoi preziosi dettagli, mi limiterò a ricordare che si tratta di una discussione halakhica nella quale si deve decidere se un dato forno sia kasher (puro) oppure no: Rabbi Eliezer lo dichiara puro, i suoi colleghi (la maggioranza, a cui dà voce Rabbi Yehoshua) pensano che sia impuro. Il primo porta come argomenti alcuni miracoli, che interrompono il corso naturale delle cose, e alla fine persino una bat qol, una voce celeste, afferma che ha ragione; gli altri avanzano obiezioni di procedura: i miracoli, anche i più impressionanti, non fanno testo, non sono prove halakhiche; e quando il Cielo interferisce, viene – per così dire – zittito con una citazione della Torà: lo ba-shammaim he, “essa [la Torà] non è in cielo”, vale a dire: è stata trasferita tramite Moshe rabbenu da Dio agli uomini e ora spetta ai maestri studiarla e trarne tutte le implicazioni, incluse le norme procedurali per decidere nel merito se un forno è kasher o meno. Alla fine Rabbi Natan chiede al profeta Eliahu come abbia reagito il Santo benedetto in cielo all’esito di questa accesissima diatriba, ed Eliahu risponde: “Ha sorriso e ha detto [per ben due volte!]: i miei figli mi hanno vinto!”. Questa pagina talmudica ha avuto nel tempo infiniti commenti e sul sorriso divino in età contemporanea prevale questa tesi: fu un sorriso di compiacimento in quanto Dio è appagato dal fatto che i suoi figli si siano ‘impossessati’ così bene della Sua Legge che ormai se la sbrigano da soli; quell’essere ‘vinto’ è la soddisfazione di un padre i cui figli sono diventati persino più bravi di lui… Bello. Ma. Non è che la facciamo troppo semplice, con una lettura psicologicamente montessoriana e politicamente incline ad esaltare la ‘regola democratica’ comunque sia? E se ci fosse un davar acher meno autogratificante? Come dire: e se avesse davvero avuto ragione Rabbi Eliezer?
Due insights suggeriscono la possibilità che quel sorriso voglia dire altro e sia meno rassicurante. Il primo viene da un breve commento steso nel 1929 da Benjamin Fondane, che si schiera in difesa di Rabbi Eliezer contro l’ostinazione dei suoi colleghi (apparso recentemente nei suoi Scritti sull’ebraismo). Il secondo è di uno dei maggiori talmudisti viventi, David Weiss Halivni, il quale in una ‘aggiunta’ al proprio testo sulla ‘teologia ebraica dopo la Shoà”, interpreta così: “Il duplice ‘i miei figli mi hanno vinto’ non vuol dire che essi abbiano ragione ma che essi hanno prevalso sul Santo bendetto in virtù del libero arbitrio donato loro e il Suo sorriso non significa che il Santo bendetto fosse d’accordo; anzi come l’espressione ‘sorrisero su di lui in Occidente [cioè in Palestina rispetto a Babilonia]’ che si trova in molti altri passi del Talmud, quel ‘sorriso’ significherebbe piuttosto dissenso e disapprovazione”. Secondo questo maestro, dichiarare nullo il valore della bat qol dicendo ‘la Torah non è in cielo’ fu “un esprimersi contro il parere divino (cfr. anche Baba Metzià 86a) e impedire l’intervento del Santo benedetto provocando con ciò un nostro allontanamento da Lui cosicché anche il Santo benedetto prese le distanze da noi e decise di non intervenire più contro la libertà di scelta dei nostri persecutori; così diede loro il permesso di comportarsi secondo la loro volontà ed è questo ciò che avvenne durante la Shoà”. Quello divino allora fu un sorriso di amarezza e sconforto, non di compiacimento o di soddisfazione.

Massimo Giuliani, Università di Trento

(23 aprile 2020)