Le crisi sovrapposte

claudio vercelliTralasciando l’ottimismo dei beoti, peraltro piuttosto ingrigitosi di questi tempi, così come il catastrofismo da salotto (e da tastiera), rimane il fatto che il Covid-19 ci ha imposto di ragionare sulla fragilità di molte delle relazioni, delle cose, delle situazioni, delle istituzioni che credevamo invece come garantite una volta per sempre. Viviamo all’incrocio di tre grandi cambiamenti, impostici da una pandemia che, anche solo pochi mesi fa, avremmo pensato come improbabile, se non impossibile, almeno nei termini che si sono invece poi imposti ad ognuno di noi. Il primo di essi è il mutamento biologico, che avvertiamo come minaccia, dal momento che è a rischio la nostra esistenza. Quanto almeno, significativi aspetti della qualità di essa. Il virus, nella sua capacità diffusiva, sta mettendo a dura prova non solo i nostri sistemi immunitari individuali ma anche quelli sanitari collettivi. Le due crisi si alimentano a vicenda, facendo toccare e frizionare il “naturale” (i corpi) con il “sociale” (l’organizzazione delle società). Il secondo è la torsione economica che si sta abbattendo su di noi, a causa delle misure restrittive che sono state imposte dalle autorità, fino al blocco quasi totale di molte produzioni e distribuzioni. L’impatto di quest’ultima trasformazione, generata dall’emergenza, si potrà meglio comprendere solo con i tempi a venire, impegnando le collettività – nei suoi effetti – per i prossimi anni. Il terzo cambiamento è quello di natura sociale e civile, poiché siamo velocemente transitati da un società del movimento e dello scambio a un lungo periodo di immobilità e di «distanziamento». Il secondo durerà ancora, a giudizio dei più. La società globale sembrava cancellare la nozione di spazio, inteso come territorio separato, sostituendola con quella di transito perpetuo, quello delle merci, dei servizi, delle idee ma anche e soprattutto degli esseri umani. Dalla costante condizione di “esternalizzati”, tali poiché quasi sempre fuori dalle nostre case – in quanto è al di fuori di esse che si consumano la quasi totalità delle nostre azioni e relazioni – si è passati ad un’obbligata sedentarietà, simile, per certi aspetti, ad arresti domiciliari senza nessuna colpa. Questi mutamenti non sono destinati ad esaurirsi quando la minaccia pandemica dovesse essere ridimensionata se non sconfitta. Se è certo che non ci stiamo approssimando ad una nuova civiltà, vale la pena comunque di ripeterci la consapevolezza che molte cose, dopo questa lunga e inattesa transizione, “non saranno più come prima”. Le crisi e le trasformazioni sono interdipendenti e si alimentano vicendevolmente. Più dura questo interregno dell’isolamento obbligato, maggiori saranno le impronte che esso lascerà nella vita come nelle coscienze di molti di noi. Si tratta di un effetto slavina. Non lo archivieremo tanto facilmente, e frettolosamente, in buona sostanza. In altre parole, ciò con cui ci stiamo confrontando in molte parti del mondo è un cambio di passo. Il filosofo ed epistemologo Edgar Morin afferma che: «questa crisi è antropologica: ci rivela il lato debole e vulnerabile della formidabile potenza umana, ci rivela al tempo stesso che l’unificazione tecno-economica del globo ha creato non solo un’interdipendenza generalizzata, ma anche una comunità di destino senza solidarietà. Questa crisi molteplice dovrebbe suscitare una rigenerazione del pensiero politico e del pensiero in senso stretto. L’economia che fagocita la politica, l’ideologia finanziaria e speculativa che fagocita gli aspetti economici, l’intelligenza del calcolo che fagocita l’intelligenza riflessiva, tutto ciò impedisce di concepire gli imperativi complessi che si impongono: combinare la mondializzazione (per tutto ciò che è cooperativo) e la localizzazione (per salvare i territori desertificati, le autonomie di sussistenza e sanitarie delle nazioni); combinare sviluppo (che comporta il superamento dell’individualismo) e coesione (che è solidarietà e comunità); combinare crescita e decrescita (determinando quel che deve crescere e quel che deve decrescere)». Vasto programma e, come tale, a rischio di essere consegnato agli annali del puro idealismo. Eppure, se c’è qualcosa che emerge con evidenza proprio nel momento in cui viviamo separati, non è solo la necessità di rispecchiarci negli altri, senza i quali altrimenti ci sentiamo abbandonati a noi stessi, ma anche e soprattutto la necessità di dare corpo e sostanza a circuiti cooperativi e solidaristici. Non nel nome dei “buoni sentimenti” ma dell’oggettiva necessità di coesistere e di trovare spazi e tempi di interazione e di scambio senza i quali non saremo necessariamente noi a potere a fare a meno degli altri ma, piuttosto, l’inverso.

Claudio Vercelli