Al Museo ebraico di Trieste, una mostra sugli albanesi musulmani

TRIESTE – “Perché mio padre salvò un estraneo a rischio della sua vita e dell’intero villaggio? Mio padre era un musulmano devoto: credeva che salvare una vita significa entrare in paradiso”. L’estraneo che il padre di Enver Pashkaj riuscì a mettere in salvo era un ebreo di nome Yehoshua Baruchowiç, un signore oggi in età che fa il dentista in Messico.
Siamo a Puke, paesino sulle montagne albanesi, negli anni della seconda guerra mondiale quando Ali Sheker Pashqaj, proprietario dell’unico emporio della zona, s’impietosisce per la sorte di quel giovane prigioniero trasportato a morte certa da un convoglio nazista. Con una prontezza di spirito stupefacente offre da bere ai guardiani finché sono ubriachi e intanto ordisce la fuga di Yehoshua nel bosco. Una volta scoperto, rifiuta di confessare (“quattro volte gli misero la pistola alla tempia. Tornarono a minacciarono di mettere a fuoco il villaggio se mio padre non avesse confessato”). E quando i nazisti se ne vanno recupera il ragazzo e se lo nasconde in casa sino alla fine della guerra.
Pochi anni fa Ali Sheker Pashqaj è stato insignito da Yad Vashem, il museo dell’Olocausto di Gerusalemme, del riconoscimento di Giusto delle nazioni, titolo che onora quanti negli anni delle persecuzioni razziali rischiarono la vita per la salvezza degli ebrei. Il suo non è però un caso isolato ma l’emblema di una resistenza coraggiosa che durante la guerra vide gli albanesi musulmani proteggere e salvare quasi 2 mila ebrei in nome di Besa, un antico codice d’onore radicato nel profondo della cultura e delle usanze popolari.
Questa straordinaria vicenda, finora quasi sconosciuta all’opinione pubblica occidentale, è ricostruita dalla mostra “Besa, un codice d’onore. Albanesi musulmani che salvarono gli ebrei dalla Shoah” in esposizione per la prima volta nella versione italiana al Museo ebraico Carlo e Vera Wagner. Realizzata da Yad Vashem la rassegna propone le belle immagini del fotografo americano Norman Gershman (nell’immagine in alto), che per cinque anni ha percorso l’Albania recuperando le testimonianze di questo salvataggio e documentandolo attraverso i ritratti dei salvatori e dei loro discendenti.
Gli intensi ritratti in bianco e nero di quest’allievo di Ansel Adams, Roman Vishniac e Arnold Newman, sono affiancati da brevi interviste che con grande immediatezza testimoniano un movimento capillare di popolo, sorretto da un profondo senso di devozione e di solidarietà umana più che da motivazioni di tipo politico o culturale.
Gli interrogativi dell’intervistatore (perché l’avete fatto, cosa vi ha spinto a rischiare la vita, come siete riusciti a sfuggire agli occupanti) trovano così risposte di commovente semplicità e rettitudine. Chi si comporta secondo il codice Besa, espressione che alla lettera significa “mantenere la promessa” – spiegano i protagonisti – è qualcuno che tiene fede alla parola data, qualcuno a cui si può affidare la propria vita e quella della propria famiglia.
“Non ci sono stranieri in Albania, ci sono solo ospiti – racconta Drita Veseli, una delle donne intervistate – Il codice morale di noi albanesi richiede di essere ospitali con l’ospite nella nostra casa e nel nostro paese”. “La nostra casa – continua – è innanzi tutto la casa di Dio, poi la casa del nostro ospite e infine la casa della nostra famiglia. Il Corano c’insegna che tutti gli uomini, ebrei, cristiani, musulmani sono sotto un unico Dio”. “Aiutarsi l’un l’altro è un dovere morale – dice Adile Kasapi – La religione era parte della nostra educazione famigliare. Sarebbe stato impensabile denunciare degli ebrei in stato di bisogno”. “In quanto musulmani devoti estendemmo la nostra protezione e la nostra umanità agli ebrei. Perché? Besa, l’amicizia e il Santo Corano” sintetizza Beqir Qoqia.
“Besa – spiega il fotografo Norman Gershman – è molto più della semplice ospitalità. E’ un sentimento che ti lega a chi entra nella tua sfera contro ogni avversità”. “Le famiglie musulmane – racconta il fotografo Norman Gershman – mi ripetevano in continuazione che salvare una vita umana è andare in paradiso. I figli di un salvatore mi dissero che il principio insegnatogli dal padre, secondo cui vivono, è ‘se qualcuno bussa alla tua porta, devi assumerti la responsabilità’”.
Quest’assunzione di responsabilità degli albanesi musulmani si tradusse in salvataggi avventurosi come quello di Ali Sheker Pashqaj. Nella generosità della famiglia Kasapi, che per oltre due anni convisse a Tirana in due stanze con i cinque familiari di Moses Frances subendo minacce e percosse. Nell’abnegazione di Eshref Shpuza che procurò passaporti falsi all’intera famiglia Abravanel e poi la scortò, tre adulti e due bimbi, fino al confine con la Jugoslavia, meta di una fuga che solo qualche anno dopo la guerra Eshref scoprì essere andata buon fine (gli Abravanel oggi vivono in Israele). Nel coraggio assurdo di Lisa Pilku che affrontò a male parole la Gestapo per sviare una retata dalla sua casa in cui ospitava tre ebrei di Amburgo o di Ismail Meçe che non esitò a piantonare la sua casa di campagna con il fucile per tenere lontani delatori e nazisti.
Sono gesti che appaiono ancora più sorprendenti per la loro portata in termini di vite salvate. Nei primi decenni del Novecento l’Albania, a maggioranza musulmana, contava infatti appena 200 ebrei su una popolazione di 803 mila abitanti. Dopo l’ascesa al potere di Hitler vi cercarono però rifugio da 600 a 800 ebrei dalla Germania, l’Austria, la Serbia, la Jugoslavia e la Grecia che da lì speravano di potersi imbarcare verso Israele o le Americhe.
L’Albania li accolse e dopo l’occupazione nazista nel 1943 si rifiutò di consegnare le liste degli ebrei che vivevano nel paese. Varie agenzie governative fornirono a molti ebrei documenti falsi che consentirono loro di mescolarsi al resto della popolazione. E il livello politico si saldò a quello di popolo in un corto circuito che significò la salvezza per migliaia di uomini, donne e bambini. L’antico codice d’onore, che secondo l’interpretazione degli albanesi scaturisce dalla fede musulmana, si mescolò all’onore nazionale e allo spirito d’umanità. E per tener fede a Besa la popolazione albanese musulmana mise in gioco la sua vita fornendo rifugio, abiti, cibo e un’amicizia sincera che nella stragrande maggioranza dei casi continua ancor oggi e lega persino i discendenti in un fitto scambio di visite e corrispondenza.
Il risultato fu che quasi tutti gli ebrei che si trovavano entro i confini dell’Albania durante l’occupazione tedesca furono salvati, fatta eccezione per poche famiglie.
L’Albania, unico paese europeo a maggioranza musulmana riuscì così in un’impresa dove le altre nazioni europee fallirono. Le parole di questi salvatori, tutti riconosciuti come Giusti delle nazioni, sono qui oggi – appassionanti come un romanzo – a ricordarci che a fare la differenza della storia non è solo la banalità del male ma anche la quotidianità di un coraggio così certo delle sue ragioni da non chiamarsi mai con questo nome. E al tempo stesso questo racconto corale riesce, nella sua verità, a sfatare e rimettere in discussione un doppio pregiudizio dell’oggi. Quello sui musulmani, così spesso accomunati nell’unica luce indistinta e accecante del fondamentalismo e dell’antisemitismo. E quello sul popolo albanese, così di frequente in questi anni additato all’opinione pubblica come pericoloso e incline a delinquere. Per entrambi i casi può valere la pena di citare i fratelli Rafik e Hamid Veseli, secondo cui, “chiunque bussi alla porta è una benedizione di Dio: tutte le persone vengono da Dio”.

Daniela Gross