Elie Wisel: sopravvivere per testimoniare

Il ciclo di incontri organizzato dal CeRSe della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata si è concluso il 9 dicembre 2009, presso la Società Geografica Italiana, con la relazione di Marcello Massenzio, professore ordinario di Storia delle Religioni presso la stessa Università.
Dopo una breve riflessione del Consigliere alla Cultura dell’Ucei, Victor Magiar, sull’importanza della Giornata della Memoria e sulla nuova attenzione rivolta dai giovani a questo tema, il convegno è proseguito con un saluto di Francesco Scorza Barcellona, coordinatore del CeRSE, e con l’introduzione di Carla Roverselli, docente di Pedagogia Interculturale, che ha riassunto le principali vicende autobiografiche narrate da Elie Wiesel nel libro “La notte”.
Nel dare inizio alla sua lezione, Marcello Massenzio, ha evidenziato numerosi nessi e interrelazioni tra l’opera di Wiesel e il pensiero di Bruno Bettelheim, secondo il quale “per sopravvivere non basta rimanere in vita, è necessario avere un pensiero attivo, un progetto da realizzare, uno scopo da raggiungere”. Massenzio ha evidenziato quanto nel libro “La notte” sia protagonista il silenzio. La notte del titolo fa riferimento alla tenebra della ragione nella quale è precipitata l’Europa con lo sterminio nazista. Questo libro raccoglie le schegge del viaggio agli inferi di Wiesel, la cui prospettiva non è documentaria, ma molto più alta: la notte è anche quella discesa nell’animo dell’autore il quale è stato contaminato dal “male”. Il “male” possiede un carattere onnipervasivo, dilagante, e riesce ad abbattere le barriere tra sé e l’altro. Il cuore pulsante del libro di Wiesel non è costituito dalla descrizione delle sofferenze subite, ma dalla constatazione dello smarrimento esistenziale vissuto con sgomento in prima persona. Ciò perché Auschwitz non ha significato soltanto sterminio fisico, ma anche l’imposizione alle vittime del regresso dalla cultura alla natura, che implica il prevalere dell’istinto animale di sopravvivenza sul sistema di valori che conferisce senso all’esistere umano. Alcuni hanno saputo resistere al progetto di annientamento e nel novero dei “salvati”, nel senso di Primo Levi, è compreso il padre di Wiesel, morto ad Auschwitz. L’adolescente è stato “sommerso”, benché non interamente, dalle tenebre: “mai perdonerò al mondo di avermi usato violenza, di aver fatto di me un altro uomo, di aver risvegliato in me il diavolo, l’impulso più basso, l’istinto più selvaggio”. È nel tormento interiore che affonda le radici il suo bisogno di scrivere; il leit motiv dei suoi libri, con forte valenza autobiografica, è l’ “io diviso” dello scrittore. L’altro lato della notte è quello che abita il cuore delle vittime loro malgrado, allontanando da loro la “pietas”. Il finale de “La notte”, potente nella sua asciuttezza, ci dà la misura dell’entità della scissione psicologica; Elie Wiesel, ormai libero, si guarda nello specchio e non vede sé stesso, ma un cadavere, il cui sguardo non lo abbandonerà più.
Per esaminare la questione della sopravvivenza, Massenzio ha preso le mosse dall’introduzione di Wiesel, sintesi della precedente stesura in lingua yiddish pubblicata nella versione francese, nella quale lo scrittore si dice convinto di essere sopravvissuto per un caso e sente il dovere di conferire un senso alla propria sopravvivenza. La sopravvivenza è la vita che va oltre se stessa. Miracolo o casualità? Per certi versi non ha molta importanza perché, in entrambi i casi, questo sovrappiù di vita è imposto dall’esterno. La sopravvivenza cui tende Wiesel è di altro tenore, essa rientra nella volontà umana di conferire significato e valorizzare culturalmente la sopravvivenza occasionata dall’esterno. Nelle parole di Wiesel è tracciata la traiettoria che va dalla casualità al forte impegno etico. La scrittura de “La Notte” rappresenta un momento di fondamentale importanza all’interno del tormentato percorso esistenziale verso la riemersione del soggetto dalla notte; per arrivare a questo Wiesel ha impiegato oltre dieci anni.
Per gettare uno sguardo su questa delicatissima fase l’oratore ha scelto di partire dalla novella di Wiesel, intitolata “L’ebreo errante”, nella quale è trasfigurato il travaglio interiore successivo alla liberazione, che assume una portata universale. Dopo aver fatto riferimento al motivo che spinge Wiesel a scrivere – certamente perché i vivi imparino qualcosa ma, soprattutto, per una forma di pietas verso i morti – Massenzio tratteggia brevemente la figura dell’ebreo errante, personaggio nato in ambito cristiano e del quale, dalla seconda metà dell’Ottocento, si è appropriata la cultura ebraica, rivoluzionandone il significato, rendendo l’ebreo errante emblema dell’ebreo della diaspora. L’ebreo errante cristiano, venuto a contatto con il corpo di Gesù rimane folgorato e si converte: consacra tutta la sua lunghissima vita, fino al Giorno del Giudizio, alla propagazione del messaggio cristiano. L’unico riscatto possibile per il popolo ebraico è la rinuncia alla propria identità. Prende così forma il mito dell’ebreo che erra senza tregua per l’Europa per un doppio motivo: perché ha perduto la propria patria e perché deve diffondere la verità della passione. Quando la cultura ebraica si appropria del personaggio, l’ebreo errante, trasformato, non è più persecutore, ma vittima di persecuzione; all’affermazione di questo nuovo tipo di ebreo errante molto ha contribuito Marc Chagall, che lo ha reso un’ icona ricca di poesia, individuo senza terra, ma in grado di librarsi nell’ aria. L’elemento che lo contraddistingue è il sacco che porta sulle spalle, simbolo fortissimo della cultura ebraica che ognuno porta con sé. L’ebreo errante giudaizzato è l’antitesi dell’ebreo convertito, non può disfarsi della propria identità perché la porta con sé. L’ebreo errante di Wiesel ricorda il personaggio di Chagall del quale, però, non ha l’innocenza perché, nel suo eterno vagare, si è imbattuto in una tragedia storica, la Shoah. Il personaggio di Wiesel è una figura paradossale, perturbante, “con lui le certezze diventavano polvere”, fatta per suscitare effetti contrastanti. Elie Wiesel ha fatto della prerogativa dell’errare nello spazio una qualità mentale e l’ebreo errante diventa un maestro di seduzione intellettuale, in grado di indurre turbamento, portatore di un pensiero che dà le vertigini. Perché scorgere un maestro in un essere così misterioso? Nel passaggio chiave della novella, nel quale il tema della sopravvivenza si intreccia con il tema della memoria, affiora il tratto distintivo dell’ebreo errante trasformato in maestro, ossia la distruzione del Tempio e della città di Gerusalemme. Wiesel pone l’accento sulla capacità del maestro di infondere nuova linfa ad un racconto standardizzato che, grazie a lui, diventa non il ricordo di un lontano passato, ma un accadimento ridivenuto attuale; questa è la differenza tra ricordo e memoria. C’è un solo soggetto in grado di suscitare forti reazioni emotive, colui che ha vissuto in prima persona l’evento e ne rimane per sempre testimone; le sue parole non si limitano a dire, ma hanno il potere di agire sul tempo, proiettando il passato nel presente, abbattendo la barriera cronologica. Se la catastrofe di tanto tempo fa ridiventa attuale e ci emoziona allo stesso modo, è perché essa è posta al centro del vissuto di chi parla; solo se si pone attenzione a questa operazione delle parole sul tempo si percepisce la peculiare natura della memoria di cui l’ebreo errante di Wiesel è il depositario. In caso contrario il valore della memoria diviene banale. Wiesel fa un fondamentale passo in avanti nel processo di decristianizzazione del mito: la rievocazione della distruzione del Tempio non rinnova la colpa, ma genera un sentimento di fierezza, i sopravvissuti di allora hanno dato prova di sapersi proiettare oltre l’evento tragico e di saper conferire senso al ricominciare. L’ebreo errante è il sopravvissuto di allora e di sempre, “la vittoria dell’uomo sulla notte”. Il nucleo teorico della corrispondenza passato-presente risiede nelle parole dell’ebreo errante di Wiesel: “il gesto di Caino contiene quello di Tito, il sacrificio di Isacco preannuncia l’Olocausto, l’uomo è troppo debole per cominciare, Qualcuno ha già cominciato prima di lui”. Cominciare è creare e l’uomo può solo ripetere. La Shoah nel suo primo e essenziale significato è irriducibile a qualsiasi prospettiva di ordine e di senso; forse non altrettanto la Shoah culturalmente mediata, ricondotta ad un archetipo familiare, venuto a costituirsi nella precedente storia ebraica.
La distruzione del Tempio ha segnato un arresto della storia, una possibile apocalisse definitiva che non si è verificata, perché il popolo della diaspora di allora ha saputo trovare in sé le energie morali per darsi nuove prospettive di esistenza, realizzando un modello di sopravvivenza diverso dal continuare passivamente a vivere. I reduci dei campi di concentramento della novella di Wiesel hanno fatto esperienza di un arresto della storia, una nuova apocalisse e devono essere risvegliati pur di non vivere in un stato di torpore, imprigionati per sempre nelle tenebre della notte.
Ad essi l’ebreo errante intende trasmettere l’arte della sopravvivenza.
Ma la novella di Wiesel porta nella sua conclusione, non tanto il messaggio “catartico” dell’ebreo errante, quanto l’angoscia del dramma. La partenza dell’ebreo errante, il distacco, è la metafora dell’unità perduta dell’ “io”.

M. Cristina Bonanni