Israele, fra teocrazia e animo anarchico

Qual è la forma politica di Israele? I popoli pagani hanno finito per scegliere spesso, nella loro storia, la monarchia, hanno conferito il titolo di melekh, di “re” all’uomo che li guidava. La fede di Israele sta invece nell’attesa che Dio sia pienamente ed eternamente proclamato Melekh, “Re”, sta nell’attesa della teocrazia. E il tema della “teocrazia” percorre tutta la riflessione politica ebraica, anche quella dell’ultimo secolo, da Martin Buber fino a Jacob Taubes.
Ma che cosa vuol dire “teocrazia”? La parola, di origine greca, viene usata per la prima volta da Flavio Giuseppe, quando descrive la rivolta degli zeloti, dei gruppi di resistenza ebraica contro l’Impero romano. Ma è una parola che può facilmente essere fraintesa: può essere interpretata come una sovranità umana legittimata, nell’esigenza insomma di proclamare un sovrano che comandi sugli altri (rischio in cui è incorso anche Israele) oppure può essere equiparata ad una “ierocrazia”, cioè alla “sovranità dei consacrati”, che si esprime nel governo diretto della casta sacerdotale (un ripugnante esempio è quello dell’odierno Iran).
Nel caso di Israele non si tratta appunto né di una sovranità umana legittimata, né di una ierocrazia. Piuttosto, e ben di più, si tratta – spiega ad esempio Buber nel suo libro La Regalità di Dio – di “teocrazia diretta”, “non metaforica”, “assolutamente reale”: una lega di tribù seminomadi denominata Israele, in marcia dall’Egitto verso Canaan, invece di conferire il titolo di melekh all’uomo che la guida, per la prima e unica volta nella storia dei popoli proclama Melekh Dio stesso, il suo Dio. Il che vieta a chiunque di chiamarsi re, di essere sovrano o capo. Nell’Israele premonarchico, anteriore a Samuele, quello a cui Buber guarda, non vi è alienazione della sovranità, “perché non esiste sfera politica all’infuori di quella teopolitica”.
Alla teocrazia, d’altra parte, fa riscontro la aspirazione libertaria delle tribù itineranti. La teocrazia viene edificata sull’indole anarchica del popolo dalla “dura cervice” che si è piegato alla Sovranità del suo Liberatore divino. Lévinas parla del paradosso dell’accettazione della Regalità di Dio che, mentre risponde all’istinto indomabile di indipendenza, produce un estremo legame di dipendenza. È in questo legame la nuova libertà a cui mira Israele – libertà difficile da realizzare, tra il rischio di cadere in una confusione inerte e selvaggia, e l’attuazione del Regno di Dio. La democrazia può essere per Israele una sorta di compromesso, purché non perda di vista il suo “patto”, il suo impegno teologico-politico.
Sulla forma politica di Israele è tornato negli ultimi decenni anche Jacob Taubes, figura originalissima di filosofo e rabbino ortodosso (tutte le sue opere sono tradotte in italiano). Fenomeno fondamentale della teologia politica, la teocrazia è per Taubes “un immediato dominio di Dio che esclude ogni forma di dominio dell’uomo sull’uomo”, fino al rifiuto di ogni guida politica. Il patto di alleanza con Dio, esclude ogni altro patto o vincolo terreno e fa di Israele una comunità politica senza autorità, una società che non si costituisce attraverso uno stato. “La teocrazia si basa sull’animo sostanzialmente anarchico di Israele”.

Donatella Di Cesare, filosofa