Qui Torino – La memoria secondo Massimo Ottolenghi
“Dobbiamo dare la parola ai ricordi; la nostra memoria è un monito per il futuro” mi spiega al telefono l’avvocato Massimo Ottolenghi, ex militante del movimento Giustizia e libertà, scrittore e Decano dell’ordine degli avvocati torinesi. Il suo nuovo libro, “Per un pezzo di patria”, è un affresco vivo e nitido di trent’anni di storia italiana, una testimonianza diretta e preziosa dei…
“Dobbiamo dare la parola ai ricordi; la nostra memoria è un monito per il futuro” mi spiega al telefono l’avvocato Massimo Ottolenghi, ex militante del movimento Giustizia e libertà, scrittore e Decano dell’ordine degli avvocati torinesi. Il suo nuovo libro, “Per un pezzo di patria”, è un affresco vivo e nitido di trent’anni di storia italiana, una testimonianza diretta e preziosa dei drammatici eventi della prima metà del secolo. Nato nel 1915, Ottolenghi regala al lettore un spaccato interessante sia del mondo ebraico, con le sue tragiche vicissitudini, sia della Resistenza, raccontata con sguardo critico ma appassionato.
L’autore, che il 20 gennaio sarà uno dei protagonisti dell’iniziativa “Ogni libro illuminato” della Comunità ebraica di Torino, ha dedicato il libro ai suoi pronipoti “perché non dimentichino”. “La memoria – mi spiega – è un patrimonio da tramandare e preservare. Tramite la memoria possiamo insegnare alle future generazioni il rispetto della legalità, dei diritti umani”. E sui giovani Ottolenghi ripone molta fiducia. In questi anni è andato molte volte nelle scuole a raccontare la sua storia e ha sempre avuto impressioni positive. “Non è vero” sostiene “che i giovani siano così immaturi, anzi io li ho trovati molto vivi e ricettivi. Semmai è la generazione di mezzo che ha dei valori deformati, succube del denaro e della vanità”.
Quando parla del passato, Ottolenghi guarda al presente e al futuro “mio padre è stato cacciato dall’università come un criminale, gettato, assieme agli altri ebrei in pasto all’odio. L’ebreo non era più un cittadino ma una sub specie umana, una selvaggina da uccidere. Bisogna evitare di ricadere nell’odio perché questo non può che generare altro odio”. Il monito è forte ed è evidente il riferimento con l’attualità tanto che Ottolenghi sottolinea “non si può costringere le persone alla clandestinità, ma dobbiamo tutelarle attraverso la legalità. Solo così potrà veramente esserci una convivenza civile”.
Poi, evocando quasi un brano brechtiano (Prima di tutto vennero a prendere gli zingari..), ricorda che “bisogna combattere l’odio contro chiunque per poi si riverserà sugli altri. La tragedia degli ebrei si poi trasformata nella rovina di tutti gli altri”.
Uno dei ricordi più significativi degli anni della guerra riguarda la costituzione di una sorta di rete assistenziale in quella che Ottolenghi chiama “l’Oasi delle valli di Lanzo”. Qui il maresciallo Rolando, uomo delle istituzioni, aveva sottoscritto un tacito accordo con gli uomini della resistenza. Vi era una operosa convivenza tra legalità e insurrezione. “Grazie all’aiuto di carabinieri, di religiosi come di gente comune duecentocinquanta ebrei riuscirono a salvarsi”.
Con un sorriso torna alla mente il compagno partigiano Giulio Bolaffi “appollaiato su una scala mentre cerca di cancellare una scritta fascista e poco lontano sono di guardia le SS”. Poi rievoca il coraggio di Gianelli “che rischiò la vita per salvare i compagni”. In Per un pezzo di patria sono tanti gli uomini e le donne a cui Ottolenghi dedica un ricordo, un momento, una parola.
Con grande amarezza confessa che “quegli uomini hanno combattuto e sognato una società ben lontana da quella attuale. La costituzione è il frutto del nostro impegno, della nostra sofferenza, dobbiamo difenderla. Onestamente con profonda tristezza penso che se quanto successo si ripetesse oggi, solidarietà, valori, aiuto sarebbero difficili da trovare. Oggi molto più che allora”. Una frase pronunciata con grande sofferenza, su cui in molti dovrebbero soffermarsi.
Daniel Reichel