Lebanon, claustrofobia di un conflitto
E’ Lebanon dell’israeliano Samuel Maoz, sorpresa in concorso alla mostra del cinema di Venezia e probabile candidato al premio Leone del Futuro -“Luigi De Laurentiis” per la miglior opera prima. Questa pellicola straziante e claustrofobica segue le vicende di quattro soldati bloccati dentro un carro armato israeliano, che rimane immobilizzato in territorio nemico nel primo giorno della guerra del libano nel 1982.
La storia ci catapulta in una mattina di giugno in cui arriva un nuovo artigliere, Shmulik, che si aggiunge agli altri tre membri dell’equipaggio, Assi il comandante, Yigal il guidatore, Herzl l’addetto al caricamento dei fucili. La loro prima missione è di accompagnare una unità di paracadutisti verso un villaggio libanese già bombardato dall’aviazione israeliana, non è prevista nessuna resistenza, solo una missione di routine che il luogotenente Jamil definisce “una scampagnata estiva”.
Sulla strada una macchina avanza verso la pattuglia, Shmulik esita nello sparare e come risultato un soldato dell’unità perde la vita, l’ordine è di evacuare il morto nel “rinoceronte”, così il corpo viene caricato sul carro in attesa di soccorsi. Nel giro di qualche ora la missione sfuggirà di mano al suo comandante, mentre il carro armato si ritroverà isolato in una trappola mortale.
La pattuglia raggiunge il villaggio sbagliato dove alcuni terroristi hanno preso in ostaggio dei civili, una famiglia che verrà uccisa nel conflitto a fuoco, sopravvive solo la madre che si scaglia contro i soldati israeliani, gli stessi da cui poi si lascia mettere in salvo. L’unità riesce a catturare un soldato siriano, che viene trascinato nel carro armato come ostaggio. Poco dopo arrivano i falangisti, cristiani libanesi alleati di Israele. Uno di loro entra nel carro, nessuno dell’equipaggio parla arabo, solo il pubblico in sala è in grado di comprendere le minacce che il falangista indirizza al soldato siriano, minacce di squartamenti e di una morte lenta.
Ogni nuovo avvenimento fa crescere la tensione e il panico dentro il carro armato, che prima si blocca, poi si perde tra le linee nemiche, fino al momento di distensione che chiude il film. La visione del mondo esterno è filtrata dal telescopio del tiratore scelto Shmulik, unico occhio vigile a scrutare la realtà del campo di battaglia. L’artigliere partecipa allo spettacolo della guerra come farebbe il pubblico in sala: la sua visione è sempre parziale, le sue reazioni un misto d’orrore, fascinazione e sensi di colpa. Sotto al mirino si trovano i comandi per sparare, la responsabilità di vita e di morte su altri esseri umani.
La pellicola fa scarso uso di riprese grandangolari e predilige invece i primi piani. I dialoghi sono essenziali, ma non per questo meno viscerali; di forte impatto la frase incisa nell’abitacolo del tank: “L’uomo è d’acciaio, il carro armato è solo ferraglia”. Maoz pone l’attenzione sulle reazioni istintive dei personaggi implicati nella vicenda, non ci sono considerazioni di natura politica, sociale o etica, come del resto non sono presenti neppure in “Beaufort” e “Valzer con Bashir” gli altri due film che trattano l’argomento.
L’atteggiamento di distacco del regista può risultare alienante ad un occhio poco abituato, se non fosse che questo film è il racconto di un’esperienza reale, personale e intima di Maoz, 24 ore d’Inferno, e come tale, è terribilmente convincente. Una pellicola diretta da un uomo ancora ossessionato dai demoni del suo passato.
Michael Calimani