Vent’anni dalle Intese – Il discorso del professor Carlo Cardia. Intesa ebraica e pluralismo religioso in Italia

Io parlerò di alcuni contenuti dell’Intesa ebraica, ma la mia Relazione avrà un orizzonte più ampio. Mi soffermerò soprattutto sul contributo che i rapporti istituzionali con l’ebraismo hanno recato al dispiegarsi in Italia di un più ampio, e sereno, pluralismo confessionale. Sottolineo questi due aggettivi per un motivo. Il nostro è un Paese nel quale si va sviluppando da tempo un pluralismo religioso consistente, aperto a diverse presenze e tradizioni, garantito da principi costituzionali di laicità e libertà religiosa. Però, dobbiamo dirci una verità che può sembrare amara. Il nostro è ancora un pluralismo acerbo, segnato da polemiche che investono (qualche volta avvelenano) i rapporti tra le confessioni (in particolare tra le chiese cristiane), al quale Io Stato cerca di rimanere estraneo, e che costituisce una delle eredità della nostra storia nazionale. Ho sempre pensato che l’attuazione dell’articolo 7 e dell’articolo 8 della Costituzione, oltre a rendere operante il principio di eguale libertà delle confessioni, potesse svolgere anche la funzione di rasserenare il clima dei rapporti interconfessionali, facendo crescere il dialogo tra le religioni, superare almeno le punte più aspre cli una polemica che da noi si trascina più che altrove. Naturalmente ciò in parte è avvenuto. E’ avvenuto proprio nel rapporto tra cristiani ed ebrei, ad esempio con gli incontri indimenticabili tra Giovanni Paolo II, la Comunità Ebraica di Roma, il suo Rabbino Capo Elio Toaff. Anche di recente, il documento con la quale la Conferenza Episcopale Italiana ha ribadito lo speciale rapporto che unisce ebrei e cristiani e ha confermato il superamento della prassi del proselitismo attivo nei confronti degli ebrei. Anche l’Intesa ebraica ha svolto un ruolo dando all’ebraismo italiano quel riconoscimento e quella collocazione giuridica e sociale che gli spettava anche in virtù dei nostri principi costituzionali. Tuttavia, il pluralismo religioso e il dialogo interreligioso sono qualcosa di più ampio e profondo, e da questo punto di vista dobbiamo dire che essi non si sono sviluppati nella giusta misura. A volte sembra che basti un nonnulla perché divampi un piccolo incendio, si riaprano vecchie polemiche, sembra si tocchi un nervo scoperto, e che senza polemica religiosa e interreligiosa noi non sappiamo vivere. Sul punto tornerò più avanti. Per il momento voglio affermare il bisogno che, soprattutto nelle nuove generazioni, il dialogo interreligioso si sviluppi costantemente valorizzando un profilo che spesso si dimentica (e che vale in modo particolare nelle relazioni tra ebrei e cristiani), quella comunanza di fede nello stesso Dio e in una serie di valori etici e spirituali così ampia che dovrebbe far attenuare le diversità, far svanire quella diffidenza che ha pesanti radici storiche ma che oggi dovremmo considerare fuori tempo e, mi permetto di dire, fuori della storia.

Elementi originali dell’Intesa, suo contributo per lo sviluppo del pluralismo religioso in Italia
C’è nell’Intesa del 1987 un elemento che ha rafforzato il pluralismo, il riconoscimento dell’autonomia delle comunità ebraiche, ma anche della loro rilevanza istituzionale e in certo qual senso pubblica. Vi faccio un cenno molto rapido perché penso se ne occuperanno anche altri relatori, in particolare Giorgio Sacerdoti e Valerio Di Porto. L’Intesa non ha soltanto riconosciuto e confermato i diritti di libertà per gli appartenenti alle comunità ebraiche già definiti a livello costituzionale, ma ha riconosciuto, e giuridicamente protetto, quel legame organico che unisce le istituzioni scolastiche, culturali, assistenziali, ospedaliere, di antica tradizione ebraica, alle rispettive comunità territoriali. Si tratta di un riconoscimento non banale e non scontato perché una certa tradizione separatista vedeva nel fenomeno religioso un fenomeno squisitamente individuale, e tralasciava tutto ciò che era frutto di sentimento religioso, di opera collettiva, di esperienza sociale, di una organicità che non si voleva riconoscere e che invece è essenziale per i credenti e le loro organizzazioni. In questo senso anche il riconoscimento delle festività ebraiche, dal sabato alle ricorrenze religiose più importanti, non ha un valore semplicemente simbolico ma assume una pregnanza pubblica essendo applicato al mondo della scuola, delle istituzioni, del lavoro, ricordando a tutti che ciascuna comunità religiosa ha diritto alla visibilità delle sue specificità anche nella organizzazione sociale.
Sappiamo tutti che il nodo attorno al quale la discussione sulla condizione dell’ebraismo ha ruotato nel Novecento (in realtà nasce subito dopo l’atto di emancipazione del Settecento) è stato questo. Se la libertà ed eguaglianza giuridica degli ebrei, conquistata anche nell’Italia unita, fosse sufficiente a garantire loro l’identità collettiva e pubblica che avevano conservato anche nei tempi bui delle persecuzioni e dell’emarginazione. O se non occorresse qualcosa di più, non occorresse cioè salvaguardare una identità forte e riconoscibile delle organizzazioni ebraiche in quanto tali, la loro capacità di autogoverno, i loro legami sociali e culturali interni. Gli ebrei, era scritto in un documento del 1911 del Comitato delle Comunità Israelitiche Italiane, “hanno subito il fascino della vita nuova, ma si sono fatti in gran parte timidi e paurosi di mostrarsi e confessarsi per quello che sono”. Come a dire, siamo liberi ed eguali, ma questa libertà ed eguaglianza ci fa perdere qualcosa del nostro essere ebrei. In un recente libro di Stefania Dazzetti sull’autonomia delle comunità ebraiche nel Novecento” si ripercorre il cammino dell’ebraismo italiano, prima con l’organizzazione del “Consorzio” degli anni ‘20, poi con la scelta (contrastata, ma tutto sommato convinta) della legge del 1930 che sanciva non solo l’integrale pubblicizzazione delle comunità ebraiche ma anche la commistione tra potere amministrativo delle comunità e poteri pubblici, infine con l’Intesa del 1987, e il conseguente nuovo Statuto, che concilia la dimensione sociale e pubblica delle istituzioni ebraiche con la libertà e volontarietà dell’appartenenza alle comunità stesse. Si tratta di una analisi preziosa, che ripercorre un cammino nel quale tutti hanno imparato qualcosa, anzitutto la originalità di espressione e organizzazione che ciascuna confessione ha per motivi squisitamente teologici, ma anche storici e culturali.
La conciliazione tra dimensione sociale delle comunità e libera adesione individuale costituisce un risultato importante dell’Intesa del 1987, e permette di garantire all’ebraismo italiano una condizione giuridica limpida, ponendolo tra gli interlocutori delle istituzioni e dello Stato, inserendolo in quel circuito virtuoso che unisce istituzioni e aggregazioni civili, comprese quelle confessionali, e che rappresentava in quegli anni una novità per l’Italia legata al cordone ombelicale cattolico. E da questo punto di vista la trattativa per l’Intesa fu una trattativa vera, sia nel senso che si dovevano vagliare diverse ipotesi di soluzioni per più argomenti, sia nel senso che tutti noi (della parte governativa e della parte ebraica) discutevamo, approfondivamo, cercavamo di adottare soluzioni originali che rispondessero alle esigenze vere dell’ebraismo. Non voglio accentuare il valore del corto circuito virtuoso tra istituzioni e aggregazioni civili, comprese quelle confessionali, ma intendo ricordare quanto più volte ha detto Tullia Zevi (di recente anche nel Convegno alla Camera dei deputati sull’anniversario della riforma del Concordato) sulla novità delle soluzioni trovate per l’Intesa ebraica e sul ruolo positivo che queste hanno svolto per la vita interna delle singoli comunità territoriali e l’organizzazione complessiva dell’ebraismo. E’ vero, però, che da quel momento per l’opinione pubblica italiana, per una certa cultura italiana non sono mancate, però, le eccezioni), l’ebraismo italiano vede crescere il proprio ruolo, di intervento e partecipazione alla vita pubblica, su questioni rilevanti interne e internazionali, su temi come l’estirpazione dell’antisemitismo, delle discriminazioni confessionali. La voce dell’ebraismo italiano diviene una delle voci stabili, equilibrate, ascoltate in tutto il Paese, e seppure non tutto il merito del nuovo clima va ascritto all’Intesa, certamente essa ha contribuito a realizzare questo passaggio culturale decisivo.
L’Intesa aveva anche un’altra funzione, quella di allargare il pluralismo religioso oltre i confini delle chiese cristiane, comprendendovi la grande tradizione ebraica, antecedente al cristianesimo stesso. Questo è un punto al quale io tengo molto, (e di cui parlammo insieme con il Presidente Renzo Gattegna in occasione della elaborazione della Carta dei valori) perché credo che uno dei limiti della nostra tradizione sia quello di non aver valorizzato (o voluto valorizzare) appieno il patrimonio comune che il cristianesimo ha con l’ebraismo, e che dovrebbe svilupparsi su un duplice terreno. Sul piano religioso accentuando il significato di quella tradizione veterotestamentaria che accomuna cristiani ed ebrei, e facendo lievitare quella percezione dei cristiani di essere spiritualmente anche ebrei nelle profondità della propria coscienza e cultura. Questo sviluppo può contribuire, più di tante cose, a far cadere residue difficoltà di comunicazione, di dialogo, di costruzione comune di una società che operi per il bene, che è poi la cosa più importante per un vero dialogo interreligioso. Siamo di fronte a qualcosa che può sembrare facile, ma non lo è perché deve superare antiche separazioni, deve spezzare i fili nascosti di una alterità e di una contrapposizione che si è costruita anche nella psicologica delle persone. Io penso sempre al fatto che ebrei e cristiani leggono e si nutrono dello stesso Vecchio testamento che costituisce come un tronco indistruttibile che unisce le due religioni, e che su questo tronco potrebbero costruire molto di più di quanto pure è stato fatto negli ultimi anni. Ogni cristiano dovrebbe sempre ricordare che senza l’ebraismo la sua religione non esisterebbe, né concettualmente né storicamente, ogni ebreo dovrebbe ricordare che il cristianesimo ha universalizzato l’Antico testamento come mai era avvenuto prima, e come forse non sarebbe mai avvenuto senza la simbiosi con il Nuovo. Tutti noi dovremmo ricordare come i libri sapienziali che in qualche misura amalgamano Vecchio e Nuovo testamento costituiscono il substrato comune di quella cultura giudaico-cristiana che è alla base del pensiero moderno.

Limiti da superare nella diffusione della cultura religiosa, ebraica in particolare
Il pluralismo religioso, però, non ha soltanto una dimensione teologica, e/o squisitamente giuridica. Esso deve potersi svilupparsi ad un livello culturale che invece nella tradizione italiana incontra non pochi limiti, ancora oggi da superare. Svolgo adesso un ragionamento che potrebbe essere riferito anche ad altre religioni, ma che assume un significato particolare per l’ebraismo. Manca in Italia una sufficiente conoscenza dell’ebraismo, delle sue grandi correnti culturali in tanti campi della conoscenza umana, della elaborazione etica, della concezione dello Stato e della politica. Io sono tra quelli che non crede che la religione (nessuna religione) si esaurisca solo nella fede e nella spiritualità, nel rapporto esclusivamente intimo e personale con Dio. Credo che il nucleo essenziale di fede e spiritualità produca poi cultura, storia, conoscenza, interpretazione della realtà, e penso che ciò sia valido anche per l’ebraismo, la cui storia è come un fiume dai mille rivoli che ha attraversato il cammino dell’Occidente vivendolo appieno e arricchendolo, soffrendo persecuzioni e insieme recando contributi universali su tanti rami del sapere. Ma dobbiamo riconoscere che di tutto ciò noi sappiamo molto poco, che l’ebraismo, le culture cui ha dato luogo, le sue correnti mistiche, le sue scuole esegetiche, sono rimaste fuori di quel circuito di conoscenze che costituisce il substrato di una cultura viva e aperta ai diversi contributi.
Si fa un gran parlare di religione in questi tempi, ma ho l’impressione non sia mai esistita tanta ignoranza e superficialità in materia religiosa. Se non altro perché moltissimi, con tanta presunzione, affermano di conoscere e sapere tutto di tutte le religioni, anche di quelle nuove (rispetto alla nostra tradizione) con le quali stiamo entrando in contatto diretto in virtù dei più recenti processi di globalizzazione e multiculturalità. Spesso il dibattito religioso si avvale di stereotipi culturali, frasi fatte, immagini sfocate e opache, e ciò è tanto più vero quanto più si esce dal recinto cristiano. Ciò vale per l’ebraismo, ma con una aggiunta particolare. Il debito civile, culturale, psicologico, che tutti noi sentiamo di avere verso gli ebrei ci porta (almeno in linea generale) ad un grande rispetto verso la tradizione e la cultura ebraiche. Ma possiamo dire che negli ultimi anni e decenni è cresciuta in qualche modo la conoscenza dell’ebraismo, della sua storia complessa e ricchissima, delle sue tante componenti, e correnti culturali? Io credo francamente di no. E penso sia giusto quanto ha scritto Dario Calimani in due occasioni, ricordando nel 2006 che “a definire il percorso degli studi sulla cultura ebraica nell’Università italiana è di fatto la cultura non ebraica, che presenta l’ebraismo come oggetto di analisi scientifica, a volte museale, osservato dall’esterno, dalla prospettiva di maggioranza”. Nel 2005 invece aveva affrontato il tema ben più drammatico della mancata memoria, o della sovrabbondante memoria, della shoa e delle loro conseguenze sull’ebraismo. Se la negazione della memoria ha dominato a lungo in Europa e in Occidente, ricorda Calimani, anche quando essa si è fatta più viva ha finito col rovesciare sull’ebraismo delle controindicazioni perche “l’ebreo rischia di veder trasformato il suo ebraismo, la sua cultura e i suoi valori, in una religione della Shoah. Una cultura che rischia di concentrarsi sulla mitizzazione del negativo e della tragedia, e sulla monumentalizzazione di sé e del proprio genocidio”.
In altri termini, a soffrirne sono la conoscenza vera dell’ebraismo, nella sua autenticità, e la sua diffusione nel circuito del sapere. Se ci guardiamo attorno, nelle scuole e nelle università, credo che pochi saprebbero dire davvero quale è stato lo sviluppo, tumultuoso e complesso, della cultura ebraica nei secoli, nei periodi d’oro in Spagna, nell’Europa centrale ed orientale, in tanti altri segmenti di storia a Gerusalemme, in Olanda, in Polonia, in mille altri luoghi d’Europa. Pochi sanno veramente cosa è stata la Kabbalah e i suoi complessi rapporti con il talmudismo, o cosa siano stati i comandamenti di Maimonide, o molto più tardi il chassidismo, e i compromessi intervenuti fra talmudismo e chassidismo. Se poi si parla del messianesimo, credo che ben pochi vadano oltre lo schema vetero-cristiano per il quale gli ebrei aspettano ancora la venuta del messia, mentre Gesù è già venuto. E non saprebbero dire nulla su cosa ha prodotto, in storia e cultura, e a anche in conflitti intra-ebraici, il messianesimo, con le figure nobili e meno nobili della storia ebraica.
E’ stato riproposto di recente un testo degli anni ‘80, dell’ebraista e teologo francese David Banon, “La lettura infinita”, con prefazione di Emmanuel Lévinas, nel quale si prospetta la lezione metodologica del midrash per la quale non c’è opera aperta più aperta della Bibbia. La lezione metodologica potrebbe essere posta a fondamento della cultura esegetica occidentale, soprattutto quando sostiene che mai si può accostare un testo (sacro) senza la catena delle sue interpretazioni, e mai però si può ammettere la pretesa di chiudere questa stessa catena, perché essa ha uno sviluppo continuo, e dobbiamo saper aggiungere, per dirla con Lévinas, il nostro ai settanta sensi dell’insegnamento divino. Si tratta di un metodo che non vuole abbandonare la solidità ed eternità della Parola di Dio, ma vuole anche leggerla secondo l’incessante novità ed evoluzione dei tempi dell’uomo. Una lezione esegetica che potrebbe valere per tutti i giuristi, anche quelli moderni, che a volte sacralizzano e fossilizzano il testo di una legge, fino al punto magari di non accorgersi che si tratta di una legge ingiusta.
Se vogliamo dire la verità, dobbiamo riconoscere che il mondo ebraico è per la stragrande maggioranza un mondo sconosciuto, sconosciuto per i ragazzi, per la scuola, per l’Università italiana. La stessa riduzione della vicenda ebraica nella Shoah provoca un altro risultato indiretto, di ignorare la secolare odissea di persecuzione, e di emarginazione, vissuta dagli ebrei un po’ dovunque, con mille e mille pratiche non prive (se posso dire così) di inventiva luciferina da parte del potere laico e religioso, dalla preclusione delle professioni liberali al divieto dei matrimoni misti, dalle prediche coatte alle conversioni indotte, dalla formazione dei ghetti alle vessazioni finanziarie, dai progrom compiuti da popolazioni locali all’obbligo di portare il segno distintivo, dai roghi del Talmud ed altri testi ebraici, agli editti di espulsione che in Spagna e in altri Paesi sono stati emanati ad intermittenza o in modo definitivo. Tutto ciò fa parte della storia e della memoria più intima di un popolo e di una religione ma ho l’impressione che, tranne alcuni cultori di materie storiche, pochi conoscano anche i momenti essenziali di questa lunga odissea.

Pluralismo e multiculturalità. Aspettative, delusioni, scelte da compiere
Il pluralismo religioso, infine, non può raggiungere un livello sufficiente di maturazione se non nel rapporto tra le diverse religioni, e nelle relazioni di ciascuna di esse con lo Stato e le istituzioni pubbliche. Su questo punto, dobbiamo registrare dei nuovi ostacoli sulla via del pieno dispiegamento del pluralismo confessionale. Ricordo che dopo il varo delle prime Intese compresa quella ebraica, eravamo tutti convinti che ormai la strada del pluralismo era aperta e non si sarebbe più chiusa. Ci sbagliavamo. E’ intervenuto con il tempo qualcosa che ha bloccato per anni intese già sottoscritte, e che corre il rischio di creare come una ‘terra di nessuno’ nei rapporti tra Stato e confessioni religiose. Delle intese ormai non si parla più, come non si parla più di quella legge sulla libertà religiosa che dovrebbe sostituire la Legge sui culti ammessi del 1929. Ed è bene ricordare che, caso unico in Europa, noi siamo l’unico paese nel quale è tuttora in vigore (sia pure ritoccata per gli interventi della Corte costituzionale) la legge del 1929 mentre un po’ ovunque in Europa (dalla Spagna alla Lituania, dalla Russia all’Albania, Polonia, Ungheria, Romana e via di seguito) sono state approvate leggi organiche sulla libertà religiosa per garantire diritti e prerogative a tutti i culti. E’ qualcosa di cui dobbiamo essere preoccupati, provandone forse un po’ di vergogna.
Se riconosciamo che è stato interrotto il cammino del pluralismo religioso dobbiamo chiederci il perché. Quella che tra il 1984 e il 1987 sembrava una stagione riformatrice coraggiosa e lungimirante si è come bloccata. La grande riforma che aveva acceso speranze e aspettative appare oggi come una riforma incompiuta. Si è opacizzato l’orizzonte riformatore, si vive come in un clima di paura, di paura del nuovo, quasi pentiti di essere andati troppo avanti. Ne abbiamo avuta una riprova nel recente dibattito sull’ora di religione islamica, accesosi all’improvviso sulla stampa e subito spentosi, nel quale sono state dette molte cose interessanti ma anche qualcuna preoccupante. Io credo ad esempio che non sia giusto dire che in un Paese come il nostro vi è spazio soltanto per l’insegnamento cattolico nelle scuole, tanto più in una fase nella quale il pluralismo religioso si è andato arricchendo in virtù del processo multiculturale sviluppatosi negli ultimi decenni. Ricordo ad esempio che quando incontrammo, per la elaborazione della Carta dei valori, i rappresentanti delle Chiese ortodosse, i cui fedeli sono in Italia oltre un milione con un tasso di natalità molto forte, ci fu detto che, non appena ottenuto i riconoscimento, avrebbero chiesto di stipulare una intesa con lo Stato anche per attivare un corso di insegnamento religioso al quale potessero accedere gli studenti ortodossi. Possiamo dire in coscienza che lo Stato italiano dirà loro di no? Su quali basi, e con quale rispetto del principio di eguaglianza e di pari dignità delle confessioni, potremmo opporre un rifiuto del genere?
Di fronte al nuovo pluralismo religioso che si va radicando nel nostro Paese occorre riflettere, per fare delle scelte sagge e lungimiranti. In primo luogo dobbiamo dire che non è giusto, né realistico, che minoranze religiose rappresentate da circa un milione di persone ciascuna (come sono quelle del mondo dell’immigrazione) vivano in una condizione di fatto nella quale non si conosce e non si sa esattamente quali siano le loro strutture, le loro attività, la loro esigenze. Di più, non far nulla per le c.d. nuove religioni (nuove per noi, naturalmente, non in sé) vuoi dire riaffermare una volontà protezionistica per le confessioni tradizionali clic si pensava superata. Oggi dobbiamo tornare a riconoscere che una libertà religiosa che non sia eguale per tutti diventa privilegio per alcuni motivo di avvilimento (o discriminazione) per altri. Il quadro costituzionale è del tutto chiaro sul punto perché prevede che una confessione religiosa si organizzi secondo propri statuti purché non contrastino con i principi dell’ordinamento giuridico e possa poi stipulare un’Intesa con lo Stato. C’è quindi una strada praticabile per tutte le confessioni, compresa quelle di nuova presenza, di cui si parla tanto, e che però oggi si trovano giuridicamente in un condizione di non riconoscimento, di mancata regolarizzazione, di assenza di diritti e prerogative che non siano quelli di una qualunque associazione non riconosciuta.
In questo quadro vorrei dedicare una considerazione conclusiva alla condizione dell’Islam in Italia. Ci si lamenta spesso, a volte con ragione, che dell’Islam noi conosciamo poco, che le moschee sono molte ma si trovano allocate in luoghi non adatti, che in esse possono svolgersi attività non limpide, che gli imam parlano in lingua diversa da quella italiana. E ci si lamenta che le comunità musulmane in Italia, come in altri Paesi, rischiano infiltrazioni integraliste, o fondamentaliste. Le cose, in realtà, sono molto più complicate ma io voglio dare per fondate tutte queste preoccupazioni, per porre una domanda molto importante. E noi cosa stiamo facendo? Stiamo facendo il possibile per agevolare la regolarizzazione dell’Islam, per favorire le comunità musulmane che vivono e vogliono vivere la propria religione in piena legalità, perché anche l’Islam come altre confessioni religiose possa raggiungere i traguardi del riconoscimento giuridico e, in prospettiva, di una Intesa con lo Stato? Voglio ricordare che, dopo aver sottoscritto la “Carta dei valori” nel 2007, i maggiori rappresentanti dell’Islam moderato hanno approvato una solenne Dichiarazione di Intenti, unica nel panorama europeo per incisività e limpidezza, con la quale essi affermano di voler “garantire la propria autonomia da ogni ingerenza di centrali straniere, rifiutare ogni collegamento con organizzazioni integraliste e marcare un confine netto nei confronti di ogni tipo di fondamentalismo”. E con la quale dichiarano dì voler risolvere sia il problema delle moschee e della loro trasparenza di gestione, sia la questione degli imam perché svolgano le proprie funzioni in sintonia con l’ordinamento italiano. Oggi dobbiamo chiederci se Io Stato e le istituzioni pubbliche hanno fatto il possibile per venire incontro a questi propositi, per agevolare il processo di unificazione dei musulmani moderati in vista di un riconoscimento giuridico della loro aggregazione. Io credo di no, e credo che dobbiamo partire da un presupposto che condiziona tutto il resto. E’ interesse dello Stato, di uno Stato democratico e pluralista, che l’Islam viva e agisca alla luce del sole, che venga incoraggiato verso una piena regolarizzazione, perché solo nella regolarizzazione, e nel rispetto dei diritti di tutti gli immigrati d’altronde, si risolvono molti problemi e possono allontanarsi anche quelle paure che sono invece destinate ad aumentare se noi stessi facciamo sì che l’Islam resti in una specie di zona grigia. Una confessione che vive in un cono d’ombra, all’interno del quale si vede e non si vede, non è una confessione libera, e non è nemmeno rassicurante. Anche perché le due cose vanno insieme.
Mi sono soffermato su questo aspetto perché credo che sia parte integrante di quale pluralismo religioso vogliamo realizzare e riconoscere anche giuridicamente. Se si vuole onorare lo spirito riformatore degli anni 1984-1987 ci si deve impegnare perché anche le nuove religioni trovino in Italia quella condizione giuridica di libertà e di riconoscimento di diritti che garantisca il rispetto del pluralismo e lo sviluppo del dialogo interreligioso. In caso contrario, andremmo verso una legislazione ecclesiastica protezionistica verso alcune confessioni, ma avara e matrigna verso altre religioni. E questo sarebbe contrario proprio allo spirito con il quale si dette l’avvio negli anni ‘70-’80 alla riforma della legislazione ecclesiastica. Per queste ragioni desidero ricordare in conclusione Arturo Carlo Jemolo, il quale diceva che la libertà religiosa e la laicità dello Stato costituiscono valori che vanno preservati e coltivati costantemente, perché possono essere sempre in pericolo, per impulsi confessionisti o tentazioni giurisdizionaliste e antireligiose. Ancb’io penso che la dialettica tra società civile e società religiosa costituisce per un ordinamento democratico un bene prezioso, che ogni parte deve rispettare e alimentare continuamente. La laicità non si nutre solo di norme, che naturalmente sono essenziali e imprescindibili, ma è il frutto di un clima, di una attenzione reciproca, nella quale tutti i soggetti devono saper misurare sé stessi e la propria capacità di intervento, e in primo luogo riconoscere e tutelare i diritti degli altri come fossero diritti propri.

Conclusioni
C’è un ultimissimo punto cui vorrei accennare e che riguarda il ruolo della laicità nella più generale dialettica interna alle varie correnti del pensiero e della speculazione filosofica. E’ periodicamente ricorrente nella filosofia occidentale il tentativo, ripreso da ultimo da Martin Heidegger, di espungere dalla cultura filosofica la radice ebraica e poi giudaico-cristiana del pensiero occidentale, di considerare i testi sacri come estranei all’evoluzione coerente del pensiero filosofico. Solo le fonti greche, con gli sviluppi classici, permetterebbero di esplorare il senso dell’uomo e del mondo, mentre nelle tradizioni giudaica e cristiana regnerebbe il dogma come qualcosa di alieno di cui non abbiamo bisogno. Ma è proprio l’evoluzione storica che ogni volta si preoccupa di riproporre la centralità di Gerusalemme accanto ad Atene e Roma, come ripetutamente ha ricordato Levinas. Perché senza Gerusalemme, il pensiero occidentale sarebbe privato di una sua fonte creatrice essenziale, e senza Gerusalemme saremmo quasi spogliati di quei due valori che hanno cambiato la storia del mondo, il principio di eguaglianza degli uomini fatti ad immagine e somiglianza di Dio, ed il principio di universalità che ha immesso nell’uomo come una spinta e una febbre diretta a trasformare la società, a plasmarla secondo principi di giustizia e umanità da applicare a tutti gli uomini senza alcuna distinzione.
Oggi noi parliamo di un segmento piccolo e particolare dl una storia più grande, un segmento che parla di libertà ed eguaglianza tra le confessioni religiose, e tra i loro rispettivi fedeli. Penso, però, che dobbiamo tenere presente la storia più grande che vogliamo costruire. Una storia nella quale le religioni e le loro istituzioni sappiano realizzare un pluralismo rispettoso di ogni fede, e capace di mettere insieme quei valori comuni che servono l’uomo e la sua libertà. In questo orizzonte forse un giorno potrebbe attenuarsi la competizione esclusivista tra Atene, Gerusalemme e Roma, e aprirsi un’altra competizione diretta a mettere insieme i contributi spirituali e culturali che provengono dalle grandi capitali del pensiero umano, e porli al servizio di tutti gli uomini, secondo quanto ormai ci chiede una storia che si è estesa fino a comprendere ogni angolo della terra.

Carlo Cardia, professore di Diritto ecclesiastico all’Università di Roma Tre