Bioetica/Razzismo
Quaranta anni fa l’inizio dell’era dei trapianti ha imposto la necessità di stabilire dei criteri per definire il momento della morte e gran parte della comunità scientifica ha accettato il concetto di morte cerebrale secondo i parametri di Harward. In campo ebraico rabbinico ci sono state su questo delle grosse riserve, da chi riteneva che i criteri indicati fossero insufficienti e quindi andassero integrati, a chi rifiutava comunque l’idea di morte cerebrale come definizione di morte (la morte è un fenomeno complesso e la sua definizione non può essere solo scientifica ma deve essere anche giuridica, filosofica, religiosa). Tante volte, esprimendo queste perplessità rabbiniche in contesti multiculturali e multireligiosi ci siamo scontrati con un muro di incomprensione o di commiserazione nei confronti di un mondo come il nostro considerato, per queste e altre posizioni, arretrato. Le recentissime discussioni su questo tema fanno vedere, se non altro, che le perplessità rabbiniche non erano del tutto infondate. Meglio tardi che mai.
Riccardo Di Segni, Rabbino capo di Roma
Voglio tornare sulla questione Steiner su cui ieri è intervenuta Anna Foa. E’ lecito chiedere a Steiner di essere più coerente di quanto non sarebbe chiunque. E in nome di che lo è? Per una convenzione che nessuno dice, ma che molti alla fine pensano, in un’epoca come la nostra fatta di radicalizzazione delle opinioni c’è un set di convinzioni che tutti ritengono doverose e che è affidato in mano a testimonial di pregio che ha il compito di tener fermi dei principi per tutti. La logica è quella della salvaguardia per conto terzi – ovvero per tutti noi – da parte di alcune voci ritenute di valore, di ciò che con difficoltà siamo in grado di mantenere. Questo episodio, anche marginale, segnala il doppio registro della debolezza in cui tutti viviamo: da una parte di noi che abbiamo bisogno, appunto di un testimonial dei buoni sentimenti e, dall’altra, del testimonial che ci scegliamo, ovvero della sua capacità di sapersi mantenere all’altezza delle nostre aspettative. Nell’immediato, la scoperta di questa seconda debolezza non ci fa riflettere sulle nostre mancanze, ma ci conferma nei sentimenti che proviamo e dunque alla fine continua ad assolverci. Personalmente ci vedo anche altro. Ovvero la necessità di costruire anche in campo laico una “fabbrica dei santi” cui affidarsi e la malinconia nello scoprire, come molte volte capita per i santi o per i miracolati, che la realtà è molto più banale della sua rappresentazione e che l’icona è al di sotto delle attese.
David Bidussa, storico sociale delle idee