partecipazione/emigrazione

Si parla di circa 180.000 richieste di partecipazione alla grande maratona televisiva di lettura della Bibbia (nel senso cristiano del termine) che la Rai organizzerà nella settimana in cui cade il Kippur. Tra le centinaia di persone selezionate per la lettura sono stati scelti anche circa 16 ebrei (non sembra che ce ne fossero molti altri interessati). A parte le discussioni sull’opportunità di una partecipazione ebraica a questa iniziativa, da fare in altra sede o in altra occasione, quello che è interessante è la coralità della risposta, che indica la presenza di un pubblico generale notevolmente interessato a un programma di riscoperta della tradizione letteraria che considera sacra. Cosa succede in campo ebraico? Il contesto è differente, perché la lettura della Torà per noi è una pratica comune e ben definita, quindi nessuna novità. Ma questo bacino potenziale di interesse esiste da noi? E come è possibile risvegliare tanta attenzione?

Rav Riccardo di Segni, rabbino capo di Roma

Molti in questi giorni sono tornati a parlare della questione dell’emigrazione.
E’ un aspetto del problema e dipende da come si legge la realtà in cui siamo immersi, che non è solo costituita di immigrazione clandestina. Insistere sulla questione degli “immigrati” o sull’accoglienza, rischia di essere un tema presente, ma deviante rispetto alla partita che ufficialmente si è aperta da sabato scorso nel nostro Paese. C’è un pezzo d’Italia che è fatta di una generazione “Mario Barwuah Balotelli”. Nei confronti di questa generazione figlia di immigrati, nata qui, e dunque italiana, che non ha nessun tratto dell’italiano medio complessivamente tutti dobbiamo ancora trovare la misura. E’ la generazione che sabato scorso è andata in piazza a Milano per gridare la propria rabbia per l’uccisione di Abdul Gruibe, meglio noto come Abba, e che soprattutto ha detto che l’Italia è un paese che è cambiato, è diverso da come molti se lo immaginano. Da sabato scorso è evidente un fatto che finora nessuno aveva considerato come reale. Ovvero che dire a qualcuno di tornarsene a casa, inizia a corrispondere al fatto che colui a cui lo gridiamo è già a casa sua. Il rischio oggi è la dimensione “Banlieu”.
Il Paese è cambiato, ma ancora non abbiamo il linguaggio, prima ancora che la consapevolezza per poter fare fronte alla realtà. In ogni caso non è più né adeguato, né sufficiente il linguaggio declinato solo sul profilo dell’accoglienza. Quello funziona per gli immigrati. Per la “generazione Balotelli” si tratta di riconoscere la parità dei diritti. Non solo, ma anche di prendere atto che la questione razziale si è aperta in Italia.

David Bidussa, storico sociale delle idee