Comincia un nuovo anno, il messaggio dei rabbini italiani
Un richiamo alla necessità di riflettere, di rivalutare la nostra esperienza passata e di guardare con fiducia e con coraggio all’avvenire. Nelle ore che precedono la solennità del Rosh ha-Shanà, il Capodanno ebraico, i rabbini italiani preparano i loro interventi per celebrare quello che nella circolarità del tempo, secondo la tradizione ebraica, rappresenta il momento della creazione e del giudizio di tutta l’umanità.
Ecco alcuni dei loro messaggi di auguri e di riflessione raccolti dalla redazione di www.moked.it
“Nella Mishnà Rosh ha-Shanà – spiega il rabbino capo di Milano Alfonso Arbib – si specifica che tutti gli uomini in questa stagione passano davanti all’Eterno per essere valutati. Tutti, nessuno escluso. Tutti, ma ognuno singolarmente, in quanto essere speciale, singolo, diverso da ogni altro.
“La mia riflessione per questo Capodanno – prosegue il rav Arbib – è che gli ebrei del mondo occidentale nel corso degli ultimi due secoli hanno dedicato molte energie per essere eguali agli altri. Hanno conquistato importanti traguardi di eguaglianza nell’ambito della società e in molti casi hanno realizzato la loro ispirazione di inserimento alla pari con tutte le altre componenti della società. Ora la lezione di Rosh ha-Shanà è forse proprio quella di recuperare la nostra individualità, la nostra specialità. Perché solo sulla base di una marcata specificità, insegna la tradizione, saremo in grado di presentarci al giudizio nelle condizioni migliori. L’eguaglianza, di conseguenza, non può essere guadagnata al prezzo di annullare la propria identità”.
“Uno dei temi fondamentali di Rosh ha-Shanà – ricorda il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, è il ricordo della Aqedath Itzchaq, il (mancato) sacrificio di Isacco. Lo ricordiamo nella lettura della Torà, nelle poesie liturgiche (come l’et sha’are ratzon) e soprattutto è uno dei significati del suono dello Shofar. Il senso di questo ricordo è apparentemente semplice: la vita di Avraham è all’inizio il cammino di una persona che vuole costruire un futuro per una famiglia che ancora non ha in una terra che ancora non conosce. Quando poi la famiglia comincia a formarsi e la terra è stata visitata arriva l’ordine divino che rimette tutto in discussione; la fede di Avraham è tale da imporgli di obbedire a un ordine terribile che fa saltare non solo le sue speranze, ma anche le promesse che ha ricevuto dalla stessa Autorità che ora sembra rimangiarsele. Il ricordo che ne facciamo a Rosh ha-Shanà serve anche come richiesta di far ricadere su di noi il beneficio di un atto di fede eroico compiuto dal nostro patriarca.
“Lo schema – riprende il rav Di Segni – sembra semplice ma non lo è affatto, perché pone problemi terribili di comprensione, tanto più con la nostra mentalità attuale: che senso ha una fede che impone certe prove, quale modello morale può rappresentare la scelta apparentemente crudele di Avraham, e così via. Eppure la Aqedah e il suono dello Shofar ci accompagnano in questi giorni, ci scuotono, ma in qualche modo ci confortano. Perché la scelta di Avraham non è un caso isolato, ma rappresenta un modello costante per tutta la storia ebraica, nel senso che è una sfida al buon senso e una scommessa piena di rischi e di incertezze sul futuro. Solo con una notevole dose di fiducia il popolo ebraico riesce a sopravvivere a tutto, come ha sempre fatto. La storia della Aqedah non è solo quella della prova, ma quella del lieto fine. Avraham ha giocato tutto sul futuro, la discendenza e la terra.
“Uno dei problemi – conclude il rav Di Segni – su cui bisogna misurarsi ora, nelle nostre realtà comunitarie, è che il futuro interessa poco, non è al centro degli interessi e delle preoccupazioni. Rosh ha-Shanà serve anche a ricordarci l’urgenza di una riflessione sul senso di quello stiamo facendo e in quale prospettiva”.
“Nel Talmud – insegna il rabbino capo di Torino, Alberto Moshe Somekh – è scritto che chi studia una pagina per la centesima volta non è come colui che la studia per la centounesima. Qual è il significato di questi numeri? La ghematrià (valore numerico) del verbo shakhach (“dimenticare”) è 328, mentre quella del verbo zakhar (“ricordare”) è soltanto 227. La differenza fra memoria e dimenticanza è dunque di 101 punti. A vantaggio della smemoratezza naturalmente. Perché la memoria compensi lo svantaggio cento volte non bastano. Occorre esercitarla ben 101 volte.
“Ciascun giorno di Rosh ha-Shanà – aggiunge il rav Somekh – è uso suonare lo Shofar 101 volte. Non è un caso. Rosh haShanà, Yom ha-Zikkaron (“Giorno del ricordo”) è chiamato nella Torah, fra l’altro, zikhron teru’ah, “ricordo del suono”. Ma anche “suono che aiuta a ricordare”. Lo Shofar è dunque uno strumento prezioso per stimolare quei tanti che di fronte alle azioni non sempre commendevoli di se stessi e degli altri, hanno la memoria corta”.
“Rosh ha-Shanà – afferma il rav Adolfo Locci, rabbino capo della Comunità di Padova – è la ricorrenza che tra i suoi motivi principali ha il ricordo del Ma’sè Bereshit. Il primo di Tishrì, in particolare, sarebbe il sesto giorno della Creazione, quando fu creato il primo essere umano. Un racconto talmudico narra che in quella giornata l’uomo passò dalla sfera del pensiero divino (facciamo l’uomo a nostra immagine…..) alla realtà materiale (…..inspirò nelle sue narici anima di vita), entrò per breve tempo nel Gan Eden per poi esserne cacciato a causa della sua disobbedienza. La cacciata dal Gan Eden, grazie alla Teshuvà, fu il ridimensionamento della reale punizione decretata sull’uomo.
“Rabbì Moshè Chayym Luzzatto – prosegue il rav Locci – afferma che la Teshuvà è l’espressione della Middat Harachamim (attributo di misericordia del Signore), attraverso la quale ci è possibile non solo cancellare le nostre colpe ma addirittura trasformarle. L’uomo che ha percorso la via della Teshuvà, può riscrivere il suo passato affinché sia senza macchia e dunque sentirsi rinnovato per predisporsi un nuovo futuro. Nel giorno della sua creazione, l’uomo peccò, fu giudicato, si pentì e D-o ascoltò la sua preghiera. Per questo i nostri Maestri insegnano che di Rosh Hashanà ogni uomo viene giudicato per le proprie azioni e che a ognuno viene data la possibilità di iniziare il suo “ritorno”, con la promessa che ogni sentimento di pentimento sarà accolto dal Tribunale Celeste.
“Dobbiamo considerare – conclude il rav Locci – questo periodo di intima preghiera, singola e collettiva, come mezzo fondamentale per arrivare ad un chiarimento della via che vogliamo percorrere; espressione di una coscienziosa analisi del nostro comportamento passato e, al tempo stesso, sereno proposito di miglioramento del nostro futuro”.