shalom/integrazione

Integrare significa completare qualche cosa di mancante, di non ancora intero. In ebraico l’integrità è suggerita dalla parola shalom, che indica anche pace. Immaginare delle classi separate per stranieri – anche temporanee – sembra partire dal presupposto di una completezza già acquisita, senza necessità di apporti ulteriori o esterni; o escludere la possibilità di pacificazione tra differenze.

Benedetto Carucci Viterbi, rabbino

La proposta di istituire classi d’ingresso per i figli d’immigrati che non abbiano una conoscenza adeguata della lingua italiana è una proposta che in sé non contiene nessun elemento razzistico. Certamente risponde a un disagio esistente.
Ma può divenire la cartina di tornasole di un conflitto ideologico a sfondo razzistico. Perché in un’epoca in cui le parole corrono più velocemente dei pensieri è indispensabile esplicitare fino in fondo i propri intenti.
In questo caso sono importanti le considerazioni politiche che accompagnano la proposta. Ritenere – come qualcuno ha detto – che quel provvedimento servirà ad insegnare ai nuovi arrivati, oltre alla lingua, i nostri usi e costumi, implica varie cose.
Soprattutto dietro a parole apparentemente chiare stanno molte cose ambigue. Per esempio quali sono “i nostri usi e costumi”? Sono stati sempre eguali nel tempo? E inoltre: cos’è che rende questi costumi comuni a tutti gli italiani? E poi: quali sono “i loro” costumi? E soprattutto: “loro” chi? Perché nella società italiana “loro” sono (l’elenco è sicuramente incompleto, ma nondimeno significativo): marocchini, filippini, ucraini, rumeni, cingalesi, cinesi, senegalesi, tunisini, polacchi, giapponesi. E cosa hanno in comune tutti costoro – tra di loro – in termini di “usi e costumi”?
Di molte cose abbiamo bisogno, attualmente. Non delle parole a vanvera.

David Bidussa, storico sociale delle idee