Foa/dialogo
Tre giorni fa, il giorno di Oshaana Rabba, Vittorio Foa ha finito la sua lunga e operosa vita terrena di militante antifascista, deputato alla Costituente, leader sindacale, grande saggio della sinistra, che sono stati ben ricordati in questi giorni. Vorrei aggiungere un altro aspetto. Il nonno di Vittorio Foa era stato a fine ottocento il capo rabbino di Torino. Foa non ha mai fatto mistero delle sue origini ebraiche, sottolineando anzi che le origini non sono una cosa da poco. Quando lo scorso anno gli è stata offerta l’iscrizione onoraria alla Comunità ebraica di Roma la ha accettata con piacere e soddisfazione. Con la scomparsa di Foa si chiude simbolicamente e di fatto un periodo di storia degli ebrei italiani, durato quasi un secolo e mezzo. E’ il periodo nel quale grandi personaggi nati nell’ebraismo e più o meno coscientemente condizionati dalla sua diversità e dalla passione di giustizia si sono lanciati con entusiasmo ed eccezionali competenze nella vita pubblica italiana, incidendovi sensibilmente. Oggi le condizioni storiche e sociali sono notevolmente cambiate e questo tipo di vocazioni e biografie eccezionali non sembrano esistere più. Ma il loro modello propone interrogativi difficilmente solubili: sono quelli dell’identità ebraica in rapporto al mondo circostante, divisa tra la scelta della totale immersione all’esterno con un tenue, ma onorato, ricordo delle origini (come hanno fatto Foa e altri), o la scelta di rimanere attivi all’interno, profondendovi tutte le energie possibili (ma degli altri non dobbiamo occuparci?). Una terza via, di forte identità ebraica e di contestuale forte impegno politico, sarà mai auspicabile o possibile?
Alla figlia Anna, che onora con la sua firma anche questa testata, le affettuose condoglianze.
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma
Una grande organizzazione religiosa, con sede a Roma, sta compiendo in questi giorni enormi sforzi pubblici per eleggere a un ruolo da essa ritenuto di trascendenza colui che fu il suo massimo leader tra la fine degli anni 30 e gli anni 50 del 20° secolo. La posizione ufficiale dell’ebraismo in questa vicenda dovrebbe essere di neutralità. Come non vorremmo che altri sindacassero i nostri riti e le nostre credenze, così non è giusto che noi interferiamo nei riti e nelle credenze di altri che – va sottolineato – non sono i nostri. Tali riti, estranei alla nostra fede e alla nostra morale, non ci vincolano e hanno per noi ben scarso rilievo. A volte possono suscitare curiosità; a volte un senso di comprensione e solidarietà; altre volte un sentimento di profonda estraneità. Solleva stupore lo sforzo da parte di questa grande organizzazione e dei suoi fiancheggiatori di reperire all’interno dell’ebraismo delle voci a sostegno della procedura di trascendenza. Come se fosse necessaria un’omologazione ebraica, come se fosse in atto una mutua dipendenza. Così assolutamente non è. Anzi, le scelte in corso comportano un consapevole reciproco allontanamento dall’illusione del dialogo, della convergenza, del percorso unitario. Sempre con rispetto, ma ineluttabilmente diversi e separati.
Sergio Della Pergola, demografo, Università Ebraica di Gerusalemme