manifestazioni/cambiamento
Qualsiasi grande manifestazione, con i suoi numeri – accurati o meno – mi rimanda all’incommensurabilità della Shoah. Qualsiasi massa raccolta nelle piazze è fisicamente un confronto con la sostanza concreta, umana, della tragedia.
Benedetto Carucci Viterbi, rabbino
Nella discussione di questi giorni molti parlano di società immobile e di necessità del cambiamento. Ma così come si discute di scienza con un vocabolario approssimato, alquanto incerto, sostanzialmente inappropriato, aumentando la confusione e non favorendo una maggior consapevolezza, altrettanto si fa in merito alle trasformazioni e agli interventi anche radicali che la nostra quotidianità richiede perché si risponda adeguatamente alle sfide dei tempi.
Per cambiare o per affrontare con decisione, competenza e costanza un processo di trasformazione non basta invocare la novità. Il nuovismo non è contenuto, al più è uno stile. Occorre dichiarare i fini che si perseguono; illustrare i cambiamenti operativi che si vogliono introdurre; misurare le differenze che si prevede che si producano in conseguenza del nostro agire con quei criteri, tempi e modi; valutare i costi che tutto questo richiede. Infine considerare le trasformazioni che investono il quadro sociale all’interno del quale si opera.
Niente di tutto questo fa parte dei ragionamenti che circolano. E ciò accade perché da tempo il costume collettivo non è quello della riflessione sui propri limiti e sui propri deficit, bensì quello della individuazione di un capro espiatorio su cui riversare i propri malesseri. Un criterio che mentre non sollecita una maggiore responsabilità individuale e collettiva, allude a una società che ha come preoccupazione principale l’individuazione di un colpevole al solo scopo di placare le proprie ansie.
David Bidussa, storico sociale delle idee