inizio/responsabilità

In questi giorni si sta svolgendo a Yad Vashem a Yerushalaim un importante Convegno sulle leggi razziali e l’educazione ebraica. Riflettendo su quella che è stata la risposta educativa ebraica alle persecuzioni il mio pensiero torna alla Parashà di Bereshìt che abbiamo letto lo scorso Shabbàt. La drammatica avventura della prima coppia umana ci insegna che Adamo ed Eva dopo la caduta si sono messi a lavorare, a operare per l’avvenire a cui hanno impresso un volto umano, indicandoci che un istante di vita ha in se l’eternità.
Anche in questo Adamo ed Eva differiscono dalla maggior parte delle figure mitologiche. Vinti dalla forza di un destino tragico non si adageranno nella mortificazione. Hanno il coraggio di rialzarsi, di ricominciare. Comprendono che, condannato fin dall’inizio, l’uomo può e deve agire liberamente forgiando il proprio destino. Malgrado la loro caduta Adamo ed Eva muoiono vittoriosi. Per tutto il tempo che vivono anche lontano dal paradiso, anche lontano da Dio, sono loro a trionfare, loro e non la morte. Secondo la Tradizione ebraica, la creazione non finisce con l’uomo, al contrario comincia con l’uomo. Creando l’uomo, Dio gli ha fatto dono del segreto, non del principio, ma del nuovo inizio. In altre parole: all’uomo non è dato di creare dal nulla ; questo potere lo ha soltanto Dio: ma a ognuno è concessa la possibilità di cominciare, ricominciando da capo e da capo. Ogni uomo, ogni Adamo ricomincia tutte le volte che decide di allinearsi dalla parte della vita.
Questa dovrebbe essere l’essenza di come la Tradizione ebraica ci indica di ricordare l’immane tragedia della Shoà.

Roberto Della Rocca, rabbino

Continuano a sorprendermi la complessità e la pregnanza della parola che l’ebraico possiede per dire “responsabilità”. Achraiut ha infatti il valore
aggiunto che sta nell’evidenza della sua radice, quella che in ebraico si usa per dire “l’altro”. La responsabilità implica sempre inevitabilmente il
prossimo, mentre ci misuriamo con noi stessi. A titolo individuale così come collettivo. Questa parola, nel modo in cui si specchia fra l’italiano e
l’ebraico, mi è tornata in mente qualche giorno fa durante un interessante dibattito intorno al libro di Emmanuelle De Villepin – “Tempo di fuga” – ma
soprattutto intorno alla questione della Svizzera e dei rifugiati ebrei in tempo di guerra. Mi torna in mente, la “responsabilità”, più che mai in questi giorni di dibattito sulla figura di Pio XII.

Elena Loewenthal, scrittrice