Erri De Luca ricomincia da Almeno 5
Sono quindici anni che Erri de Luca va pubblicando traduzioni, saggi, variazioni letterarie intorno alla Torah: è un’opera straordinaria, un gesto di amore per la nostra tradizione da parte di un non ebreo che credo non abbia pari non solo nella letteratura italiana ma in tutta quella mondiale.
Le traduzioni di De Luca sono assi diverse da quelle correnti, tanto in ambito ebraico che cristiano, dato che non cercano di aiutare la comprensibilità del testo, di volgerlo in un equivalente adeguato per il senso. De Luca ha l’ambizione di restituire, oltre al contenuto semantico, anche il sapore del significante, il carattere scabro eppure straordinariamente sensibile dell’ebraico biblico. Di conseguenza non riduce mai la concretezza metaforica del testo alla nostra terminologia astratta, ma neppure si distacca da certe peculiarità dell’ebraico che sono piuttosto caratteristiche grammaticali che scelte espressive influenti per il senso, come la mancanza della copula fra soggetto e predicato, l’assenza di articolo per rendere quella genericità che nelle lingue indoeuropee contemporanee è reso dall’articolo indefinito, o il diverso sistema delle preposizioni (per cui il dialogo “bocca a bocca” fra Hashem e Moshé diventa “bocca verso bocca”). Per rispetto dell’interdizione, ma in maniera originale, il Tetragramma viene reso con la sua iniziale Iod, e gli altri nomi divini vengono lasciati come stanno.
Il risultato è talvolta sconcertante per noi, come quando la seconda proposizione dello shemà viene tradotta “e amerai Iod tuo Elo-him [la linea di separazione è aggiunta da me] in tutto il tuo cuore e in tutto il tuo fiato e in tutta la tua forza”. Certo, a leggere la Torah resa con tanta puntigliosa aderenza e coerenza traduttiva e con lo sforzo di ripensare tutti i termini, chi è abituato alla Tradizione resta un po’ a disagio; ma queste difficoltà de-automatizzano la lettura, aiutano a pensare. Mostrano soprattutto che ogni traduzione è un’interpretazione, anche quella di De Luca, che certo non è sempre la traduzione giusta. Le lingue sono più complesse e ambigue di come sembra immaginare lo scrittore napoletano, spesso sottintendono o esprimono con una perifrasi quello che non possono dire direttamente per mancanza di parole. Pretendere di evitare il verbo avere in italiano, perché in ebraico la proprietà è resa solo col verbo essere col complemento di termine, non è necessariamente la scelta giusta; anche perché poi agli aspetti verbali (perfetto/imperfetto) l’italiano (anche quello di De Luca) deve sovrapporre il suo sistema verbale, scontando anche l’inversione di tempi prodotta nell’ebraico biblico dal vav iniziale; e così non è possibile rendere per esempio la fitta presenza del genere nella coniugazione dei verbi.
In ogni caso, l’ebraismo italiano dovrebbe essere grato a De Luca non solo per aver popolarizzato i nostri testi nella cultura italiana, rivendicandone implicitamente il valore letterario, ma anche per averci aiutato a rinnovare il nostro sguardo – benché noi sappiamo bene che solo uno sforzo di lettura interno alla dimensione linguistica originale, con la sua rete semantica così diversa da quella indoeuropea ci fa accedere davvero alle “porte dell’interpretazione”. La presenza della Parashah e delle Haftarot al centro della liturgia dello Shabbat, insieme a tutti i richiami allo studio della nostra tradizione, ci richiama proprio a questo perenne sforzo di comprensione.
L’ultimo libro che De Luca ha tratto dal suo studio del Tanakh (Almeno 5, Feltrinelli 2008, pp. 84, € 9,50) è sottile e messo in parallelo con un lavoro analogamente filologico condotto da un prete cattolico, Gennaro Matino, su testo del Vangelo. Entrambi gli autori si cimentano sulla presenza testuale dei sensi (il loro numero tradizionale spiega il titolo). Veniamo confrontati col significato dei gesti e dei verbi dedicati nella Torah al vedere, gustare, udire, ecc. Alcuni esempi richiamati sono notissimi (la dimensione acustica dello Shemà, la proibizione delle immagini); altri meno noti.
L’accostamento con i Vangeli non è casuale; De Luca parla più volte di “Antico testamento” ed esprime francamente il punto di vista di un autore cattolico che si confronta con amore con una parte della sua Bibbia. Ma la sua interpretazione non è forzata nel senso di voler cogliere nei nostri testi soprattutto “anticipazioni” delle storie evangeliche, sa cogliere il valore autonomo della Torah e leggerla talvolta alla luce delle riflessioni dei Maestri del Talmud. Semmai è interessante confrontare le due sezioni di questo breve libro e vedere come la compilazione in greco dei Vangeli e la matrice teologica da cui essi escono impongano una discontinuità linguistica e letteraria e di immaginario, prima ancora che religiosa fra i due “Testamenti”.
Questo breve lavoro non è forse la più interessante fra le letture di De Luca della nostra tradizione; ma contiene numerose osservazioni notevoli, per esempio sulla presenza di due sensi “minori” come gusto e odorato nel testo della Torah. Merita dunque il tempo che richiede, lascia al suo lettore ebreo qualche sapere (qualche sapore?) nuovo, qualche nuova sfaccettatura delle nostre amate Scritture
Ugo Volli